Matteo Renzi è maleducato, cialtrone, ignorante. Quest’affermazione non ha alcun carattere insultante. Tutti i termini della triade possono essere sottoposti ad un vastissimo e fondato sistema probatorio.
La maleducazione è un esito scontato per chi ha fatto del «me ne frego» l’elemento distintivo e qualificante dei ritmi veloci dell’agire politico, di una strada da percorrere con animo guerriero, forte, vitale, giovane, beffardo, irriverente (esattamente nello spirito in cui nasce il motto).
E così, ad esempio, si può rivendicare la maleducazione «democratica» sulla base di una citazione di Chesterton mal tradotta e decontestualizzata. Maleducazione giustificata tramite cialtronismo.
Il cialtronismo, cioè il «ciarlare» coniugato con sciattezza di analisi e di verifica, è anche la cifra dell’ignoranza.
Il cialtronismo, cioè il «ciarlare» coniugato con sciattezza di analisi e di verifica, è anche la cifra dell’ignoranza.
L’ignoranza, infatti, non è tanto il frutto della scarsa frequentazione dei libri (per lo meno non soltanto), quanto del tipo di domande che l’uomo politico pone alla realtà economica e sociale. La mancanza di intelligenza delle cose, sostituita dall’abilità di movimento tra le cose in vista di un interesse, lato sensu, personale. È mancanza di cultura. Cultura in quanto «principio informatore del carattere», come dice con l’esattezza e la pregnanza che contraddistingue il suo lessico, Luigi Meneghello.
Poiché è indubbia l’abilità di politici come Matteo Renzi nell’arte di primeggiare in tutti gli esercizi connessi a questioni di potere, poiché tale primazia non ha alcuna diretta relazione con quell’intelligenza che vuol dire capire le ragioni delle cose anche attraverso sistemi formali di analisi, ecco che alcuni giornalisti hanno utilizzato il termine «talento» per indicare la naturale predisposizione al «successo». Renzi è un «maleducato di talento» (Corriere della Sera), Salvini è un «provocatore di talento» (Repubblica).
Si tratta di un processo di «democratizzazione del talento». Il «genio», il «talento» vengono connessi ad una dimensione di quasi totale fisicità E dunque prescindono tanto da cultura che da strumenti analitici; anche questi corpi intermedi da rottamare.
In politica tale tipo di genialità e di talento può trovare la sua verifica solo sui parametri del potere raggiunto e sui voti necessari per ottenerlo. E nel contesto attuale ha bisogno di manifestarsi come talento plebeo per rivolgersi ad un popolo non di cittadini bensì, appunto, di plebei.
Così viene invertita una delle promesse fondamentali della modernità, quella promessa che è stata anche il cuore della storia del movimento operaio: la trasformazione della plebe in popolo, la crescita progressiva dell’autocoscienza tramite l’allargamento della sfera dei diritti.
Un processo difficile che aveva bisogno dell’intelligenza e della cultura. Per restringere la sfera dei diritti, invece, è del tutto sufficiente il talento plebeo, l’arte, nemmeno sopraffina, della manipolazione della «gente».
Matteo Renzi in Italia è la punta alta, il paradigma, di un «talento» che è esercitato da quasi tutto il ceto politico. Più in generale il problema non è altro che la manifestazione di superficie dell’aspetto centrale dell’attuale crisi della democrazia: l’esclusione delle domande fondamentali dell’economia politica tanto dal discorso economico che da quello politico.
Matteo Renzi in Italia è la punta alta, il paradigma, di un «talento» che è esercitato da quasi tutto il ceto politico. Più in generale il problema non è altro che la manifestazione di superficie dell’aspetto centrale dell’attuale crisi della democrazia: l’esclusione delle domande fondamentali dell’economia politica tanto dal discorso economico che da quello politico.
La democrazia si è storicamente basata sull’idea di emancipazione universale. La sfera economica, decisiva nel percorso graduale verso forme più alte di rapporti di uguaglianza, non può esserne esclusa. Nello stesso tempo, però, il carico di istanze democratiche tendenzialmente crescente secondo una razionalità emancipatrice, finisce per configgere con la razionalità dei processi di accumulazione. E dunque lo spazio del discorso economico diventa sempre più esiguo, ridotto alla sfera della contabilità.
Uno studioso, che un tempo fu economista politico, delimita con precisione tale spazio nelle coordinate di un «ragionevole» europeismo (Corriere della sera, 9/4/2015). Ho molti dubbi che la «ragione» illuminista posa riconoscersi in questo suo uso assai disinvolto. Si tratta invece di una assai parziale «razionalità, di quella «nuova ragione del mondo» di cui Thatcher e Reagan sono stati gli alfieri politici. Di quella «razionalità» i cui effetti ci hanno portato a una paurosa regressione dei fondamenti stessi della democrazia, cioè di tutte le declinazioni dell’uguaglianza sia in termini economici, che sociali, che politici.
Tutti gli altri spazi di «razionalità» che non coincidono con quella dominante devono essere «messi fuori». E per questo si possono usare tutti gli strumenti possibili connessi all’uso spregiudicato del potere: le leggi elettorali ad esempio.
Qualche anno fa l’autore dell’articolo citato aveva indicato la possibilità di affrontare i «problemi difficilmente trattabili in democrazia» tramite «l’arduo compito di inventare qualcosa di simile ad un benevolent dictator»; espressione a cui egli accostava, ancora con disinvoltura, l’italiana «dittatore illuminato» (Corriere della sera, 22 dicembre 2007). Ora, benevolent non ha nulla a che vedere con «illuminato»; è sinonimo, invece, di charitable, compassionate. Si coniuga perfettamente con il progetto politico del «capitalismo compassionevole». Comunque, al momento, chi nel 2007 si augurava il benevolent dictatorè soddisfatto. Il leader carismatico c’è: il leader che è riuscito dove non ce l’ha fatta Berlusconi, cioè a «trasformare il carisma in istituzione» (Corriere della sera, 1/5/2015). Tutto si tiene, dunque.
Questa è la miscela miserevole del racconto economico e di quello politico e il benevolent dictator ne è, insieme, interprete primo e garante in ultima istanza. Con rara sincerità il Corriere della sera (9/2/2015) dice che su tale miscela non ci sono divisioni tra i partiti establishment: «se non è zuppa è pan bagnato, due minestre con profumi diversi ma fondamentalmente indirizzate allo stesso obiettivo».
Ora il compassionevole ci invita a non votare le liste di sinistra in Liguria, in Toscana…. perché sarebbe un favore alla «destra». Quale altro aggettivo, ugualmente fondato, possiamo aggiungere ai tre iniziali di questo articolo?
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