Povero Gramsci, che cosa penserebbe di fronte allo spettacolo offerto recentemente dal Pd? Non solo per l'assenza di idee e cultura, ma soprattutto per la totale incapacità di elaborare una politica che non rinneghi le novità comunicative e criteri di modernità fuori dalla «lotta di tutti contro tutti».
La pubblicistica affronta i problemi del Pd tenendo quasi sempre presente i soliti problemi chiave: l'assenza di una linea politica definita (oscilla tra liberalismo e socialismo), la litigiosità interna (con annesso protagonismo dei dirigenti), la scarsa capacità comunicativa. Tutto vero, ma c'è altro, spesso sottaciuto e invece in questi giorni emerso prepotentemente di fronte a nostri occhi: l'incapacità di comprendere che la politica democratica è mediazione, cioè governo della complessità e gestione del conflitto, analisi e interpretazione dei bisogni sociali, costruzione di progetti di lungo respiro e definizione di un'idea generale di società attraverso il duro passaggio all'interno delle dinamiche storiche. Contro questa concezione nobile della politica si è invece recentemente affermata nel Pd una concezione «prepolitica» dell'immediatezza, nella forma dello stimolo/risposta, cioè nell'inseguimento passivo delle emergenze poste da altre agende politiche, di volta in volta quella di Berlusconi, di Grillo o di Bruxelles.
L'assenza di memoria storica e, contemporaneamente, l'assenza di progettualità socio-politica è il primo e più evidente segno della vittoria di questa immediatezza. Tutto è presente, non esiste né passato né futuro: tutto si gioca nella tattica quotidiana, senza progetti di medio-termine e senza una vera consapevolezza della posta in gioco nelle nuove dinamiche europee e globali. Tutto è passività, cioè risposta a un dato sociale, politico, economico, che si impone come un Moloch: nulla è azione, tutto è ricezione. In quest'ottica la risposta non può che essere tronca: domani ci sarà un altro Moloch e un'altra risposta, sempre in un eterno presente senza dimensione storica.
Una tale immediatezza domina non solo nel governo politico del presente, ma anche nel rapporto tra classe dirigente e base del Pd. Le primarie sono un chiaro esempio della crisi della mediazione politica, visto che la partecipazione popolare a tale iniziativa è pensata nella forma della comunicazione tv, non della costruzione collettiva di un progetto politico. Un passo avanti (o meglio, indietro) è stato fatto in occasione delle recenti vicende legate alla formazione del governo e all'elezione del presidente della Repubblica, che hanno messo una pietra su ciò che restava della nobile pratica della mediazione democratica. Facebook e twitter hanno in questo caso sostituito la discussione politica e il ruolo (ormai vilipeso) della rappresentanza parlamentare. Siamo giunti in uno stadio di calcio, anzi al Colosseo, vista la fine di Marini, Prodi e Bersani.
Il problema non consiste solo nella decisione di rivolgersi a Marini piuttosto che a Rodotà, o nell'esito fallimentare di questa decisione: il problema consiste nell'incapacità politica e culturale di comprendere che la decisione politica deve necessariamente affrancarsi dal dato immediato, dalla «datità naturale» di un tweet, pena il totale svilimento dell'attività politica a riflesso pavloviano, per di più sempre in ritardo rispetto alle continue emergenze che caratterizzano la società contemporanea, frammentata in mille schegge identitarie impossibili da ricomporre se l'unica strategia è quella di inseguire tutte le richieste senza costruire alcun progetto. Una tale politica, ridotta a immediatezza, ha in sé un grado di razionalità storico-sociale addirittura inferiore a quella caratteristica del mercato, che comunque produce un'analisi del sociale, seppur piegandola ai propri fini. Questa decadenza della mediazione porta allora sulla scena gli istrioni e gli urlatori: nella «teatrocrazia» domina l'attore politico che meglio recita i sentimenti immediati della massa (non del popolo).
Il Pd ha introiettato questo dominio dell'immediatezza e ha così seguito l'onda delle élite intellettualistiche da salotto borghese, cioè di una minoranza rumorosa mossa all'apparire politico da rivendicazioni identitarie e da desideri di riconoscimento che fondano una pratica del tutto anti-moderna: la muta da caccia. Una muta da caccia che però è narcisistica, televisiva e internettiana, interessata al simulacro del sé e non legata alla lotta (marxiana) per gli interessi o alla richiesta di giustizia sociale per gli ultimi.
In questi salotti la politica è semplice strumento, mentre il fine è solo l'affermazione del sé nella piazza mediatica: l'immediatezza diventa il radicalismo anti-popolare che determina, ormai da molti anni, il distacco del maggiore partito della sinistra dai ceti popolari in favore della Lega prima, di Forza Italia poi e del Movimento 5 Stelle ora. Incurante nei fatti delle questioni generali del lavoro e della crisi economica, questo radicalismo anti-popolare si presenta nei salotti di Fazio o di Santoro, discutendo argomenti politici di moda (la costituzione, i diritti...) strumentalizzati in una cinica e adolescenziale- assenza di confronto con la realtà sociale politica economica. Ed è allora qui che diventa chiaro l'allontamento del Pd dalle tradizioni popolari (del comunismo democratico e del cattolicesimo progressista) che avrebbero dovuto innervarne le radici.
Questo dominio dell'immediatezza va infine di pari passo con l'affermazione di una vuota ideologia democratica, in cui tutte le opinioni hanno pari dignità e in cui vale solo la regola della maggioranza. Ma da questa deriva la democrazia deve essere salvata. Il criterio di legittimità della sovranità popolare non può fondarsi sul mero criterio quantitativo della maggioranza (basta ricordare il noto esempio di Hitler), tanto meno se esso è espresso via twitter: come noto già a Rousseau, oltre che a Gramsci, la volontà collettiva è davvero generale solo se riflette l'interesse comune del popolo in sé.
Non sempre le deliberazioni a maggioranza sono giuste, perché la maggioranza può affermare un interesse particolare (Berlusconi docet). Sebbene il popolo desideri il proprio bene, non sempre lo vede e talvolta si inganna assumendo una posizione che può avere esiti autoritari (Grillo docet): ecco perché si rende necessaria la saggezza della mediazione politica, che deve tenere presente la volontà popolare senza esserne schiacciata nell'immediatezza dei sondaggi. Se il Pd non comprende questa realtà, tanto vale che - dopo aver fatto propri molti assunti della cultura politica del berlusconismo - metta fine alla propria esistenza e passi, armi e bagagli, nelle fila di Grillo seppellendo definitivamente ogni idea di una sinistra politica popolare.
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