Contro la miseria. Viaggio nell’Europa del nuovo Welfare (Laterza, pp. 150, euro 12) di Giovanni Perazzoli andrebbe studiato e mandato a memoria dalle classi dirigenti presenti e future del nostro paese: politici, sindacalisti, imprenditori, accademici, giornalisti e opinion makers.
Soprattutto nell’eterno dibattito italiano sull’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Perché già dalle prime pagine ben si comprendono le migliori condizioni di vita e di lavoro esistenti nei Paesi che prevedono un reddito minimo garantito rispetto a quelli, come il nostro e la Grecia, che invece resistono a una sua introduzione. Perazzoli conduce infatti un’illuminante inchiesta sul nuovo Welfare introdotto da decenni in molti Paesi europei, a partire dai «piccoli» Belgio, Danimarca, Olanda, arrivando fino ai «grandi» Francia, Germania, Gran Bretagna. E dice subito che l’architrave di questo nuovo Welfare, universalistico e non assistenzialistico, è la previsione del reddito minimo garantito. Una garanzia del reddito che ha carattere illimitato (accompagna la ricerca di un lavoro e dura quindi anche diversi anni), universale, è rivolta a tutta la cittadinanza, ed è vincolata solamente alla «disponibilità a cercare un lavoro e all’accertamento dei mezzi (non bisogna essere ricchi per averne diritto, ma neanche essere «poveri» e non è necessario fare riferimento a intermediari politici o sindacali)».
UN ACCESSO UNIVERSALE
Sono misure dai diversi nomi, a seconda dei Paesi (nel gergo inglese the Dole, in Francia la sigla Rsa, etc.) già indagate nel volume curato dal BIN-Italia, Reddito minimo garantito. Un progetto necessario e possibile (Edizioni Gruppo Abele), citato dallo stesso Perazzoli per ribadire che in questi Paesi il titolare del diritto al reddito è qualsiasi persona in cerca di occupazione, fosse anche la prima (inoccupati, disoccupate, intermittenti e precari-e tra un lavoro e l’altro, etc.). L’autore ricorda poi come tale diritto sia integrato da altri strumenti e benefits (alloggio, riscaldamento, spese impreviste, figli, etc.), perché il nuovo Welfare state promuove una società nella quale gli individui incontrano tutele e garanzie che favoriscono l’autodeterminazione di ciascuno, nella solidarietà collettiva. E il reddito minimo è un diritto sociale riconosciuto alla persona e non un’elargizione concessa perché si appartiene a qualche categoria, corporazione, gruppo svantaggiato.
In questa prospettiva si eliminano i meccanismi burocratici di accesso al sussidio e si favorisce una migliore relazione con i centri per l’impiego. E anche dinanzi alle recenti riforme restrittive di questi modelli, che fanno parlare di un passaggio alworkfare, con il conseguente rischio di imporre lavori gratuiti o mal pagati, i livelli di tutela rimangono elevati. Leggere per credere gli esempi portati da Perazzoli sul caso tedesco dopo la riforma chiamata Hartz IV, dove una famiglia di quattro persone, con genitori disoccupati e due minori, vede ridotto il sussidio di cento euro, ottenendo ancora 1339 euro mensili (cui si aggiungono i benefits).
È questa l’Europa figlia del cosiddetto «Rapporto Beveridge», redatto nel 1942 e utilizzato dai laburisti inglesi per introdurre il Welfare State universalistico, con al centro la garanzia, per tutte le persone disoccupate, di un reddito sufficiente ad assicurare una vita degna di essere vissuta. Il modello sociale europeo che si è purtroppo fermato al di là delle Alpi, dando origine a quelle «due» Europa sulle quali insiste Perazzoli, con un punto di vista favorito dal fatto che egli stesso vive tra Italia e Olanda. Il suo sguardo sul Belpaese è addolorato e spietato, poiché vede le rovine di uno Stato sociale sempre più impoverito e corrotto da classi dirigenti che lo hanno reso fortemente corporativo, burocratico, assistenzialistico e frammentato, con le persone in difficoltà costrette a contare sulla famiglia e sulle istituzioni caritatevoli, rischiando altrimenti di finire sotto i ricatti della malavita.
Dal 1992 è la stessa Unione europea che invoca l’introduzione di un reddito minimo garantito in Italia: ce lo chiede l’Europa!
E non si tratta di barattare la stabilità del posto di lavoro, l’occupazione, con l’offerta di un reddito minimo, poiché l’Italia ha già da decenni un alto livello di flessibilità e contemporaneamente un welfare state tra i più iniqui. Così l’altro merito del libro di Perazzoli è quello di sconfiggere due artificiosi pregiudizi. Da una parte l’odioso luogo comune che proprio qui in Italia ha sempre contrapposto la garanzia del reddito alla retorica della difesa dei posti di lavoro, ma non delle persone. Dati alla mano, tutti i Paesi dell’«altra Europa» (quella con il reddito minimo) hanno migliori tassi di occupazione e maggiori tutele per le persone senza occupazione. Dall’altra si smonta il luogo comune sul costo del reddito minimo, ricordando i 30 miliardi di euro spesi annualmente per le pensioni di invalidità, troppo spesso «strumento di consenso clientelare», a scapito delle persone realmente bisognose di tutele, ma di fatto escluse da un accesso che richiede il coinvolgimento di veri e propri «micro-imprenditori del consenso», generando un abuso di false pensioni di invalidità di circa dieci miliardi di euro. Cifra sufficiente per introdurre una prima forma di reddito minimo anche in Italia. Qualora ci fosse la volontà politica di farlo. Visto che ci sono tre progetti di legge sul reddito minimo dimenticati nelle stanze del Parlamento italiano. E considerando che una battaglia per il reddito minimo garantito sarebbe sempre più necessaria e vitale (così Piero Bevilacqua su il manifesto del 24 settembre).
In questa prospettiva si eliminano i meccanismi burocratici di accesso al sussidio e si favorisce una migliore relazione con i centri per l’impiego. E anche dinanzi alle recenti riforme restrittive di questi modelli, che fanno parlare di un passaggio alworkfare, con il conseguente rischio di imporre lavori gratuiti o mal pagati, i livelli di tutela rimangono elevati. Leggere per credere gli esempi portati da Perazzoli sul caso tedesco dopo la riforma chiamata Hartz IV, dove una famiglia di quattro persone, con genitori disoccupati e due minori, vede ridotto il sussidio di cento euro, ottenendo ancora 1339 euro mensili (cui si aggiungono i benefits).
È questa l’Europa figlia del cosiddetto «Rapporto Beveridge», redatto nel 1942 e utilizzato dai laburisti inglesi per introdurre il Welfare State universalistico, con al centro la garanzia, per tutte le persone disoccupate, di un reddito sufficiente ad assicurare una vita degna di essere vissuta. Il modello sociale europeo che si è purtroppo fermato al di là delle Alpi, dando origine a quelle «due» Europa sulle quali insiste Perazzoli, con un punto di vista favorito dal fatto che egli stesso vive tra Italia e Olanda. Il suo sguardo sul Belpaese è addolorato e spietato, poiché vede le rovine di uno Stato sociale sempre più impoverito e corrotto da classi dirigenti che lo hanno reso fortemente corporativo, burocratico, assistenzialistico e frammentato, con le persone in difficoltà costrette a contare sulla famiglia e sulle istituzioni caritatevoli, rischiando altrimenti di finire sotto i ricatti della malavita.
Dal 1992 è la stessa Unione europea che invoca l’introduzione di un reddito minimo garantito in Italia: ce lo chiede l’Europa!
E non si tratta di barattare la stabilità del posto di lavoro, l’occupazione, con l’offerta di un reddito minimo, poiché l’Italia ha già da decenni un alto livello di flessibilità e contemporaneamente un welfare state tra i più iniqui. Così l’altro merito del libro di Perazzoli è quello di sconfiggere due artificiosi pregiudizi. Da una parte l’odioso luogo comune che proprio qui in Italia ha sempre contrapposto la garanzia del reddito alla retorica della difesa dei posti di lavoro, ma non delle persone. Dati alla mano, tutti i Paesi dell’«altra Europa» (quella con il reddito minimo) hanno migliori tassi di occupazione e maggiori tutele per le persone senza occupazione. Dall’altra si smonta il luogo comune sul costo del reddito minimo, ricordando i 30 miliardi di euro spesi annualmente per le pensioni di invalidità, troppo spesso «strumento di consenso clientelare», a scapito delle persone realmente bisognose di tutele, ma di fatto escluse da un accesso che richiede il coinvolgimento di veri e propri «micro-imprenditori del consenso», generando un abuso di false pensioni di invalidità di circa dieci miliardi di euro. Cifra sufficiente per introdurre una prima forma di reddito minimo anche in Italia. Qualora ci fosse la volontà politica di farlo. Visto che ci sono tre progetti di legge sul reddito minimo dimenticati nelle stanze del Parlamento italiano. E considerando che una battaglia per il reddito minimo garantito sarebbe sempre più necessaria e vitale (così Piero Bevilacqua su il manifesto del 24 settembre).
CONTRO I CLIENTELISMI
Si arriva così al nocciolo della diffidenza italiana per questo strumento. Perazzoli sostiene che al fondo ci sia un problema di libertà e democrazia. La garanzia di un reddito e di un welfare state universalistico favorisce l’autonomia e il benessere delle persone e di una società. Non si tratta di lotta alla povertà, ma di promozione della libertà individuale e di migliori condizioni di vita per tutti. È un investimento che le istituzioni pubbliche fanno sulle persone e sulla collettività. Per evitare i ricatti della miseria e della povertà, che generano paternalismi, dipendenza, clientelismi, corruzione, sfruttamento, malavita. Così potremmo anche scoprire che dinanzi alla ventilata riforma restrittiva dello stato sociale proposta da Tony Blair sul finire degli anni Novanta, l’intero movimento musicale anglosassone si oppose, segnalando che la riforma avrebbe «privato i nuovi, giovani musicisti rock del tempo sufficiente per provare». E vent’anni prima The Clash poterono comprare i primi amplificatori contando sul Dole di Joe Strummer, come raccontarono gli stessi protagonisti. E allora, potremmo ribaltare un celebre titolo di The Clash:Know your rights! Per il diritto al reddito garantito, anche in Italia.
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