Cento anni fa si concludeva tragicamente la belle époque europea e con essa un intero Evo della storia mondiale dominato dalla volontà di potenza economica, tecnica, scientifica, insomma: globale , che dello spirito europeo era stato espressione.
La guerra stessa, nel suo travolgere ogni confine,rappresentava quella missione d’Europa consistente nella realizzazione dello scambio universale, della interdipendenza degli uomini al di là di ogni costume o tradizione, della trasformazione della produzione in un dominio tecnico-scientifico sui fattori naturali. E tuttavia l’Europa, nell’affrontare quella guerra che compiva,in tutti i sensi, il suo Evo, forniva una suprema prova di mancanza di senso storico e, dunque, di previdente intelligenza. Era ancora, sì, l’Europa delle grandi potenze coloniali, l’Europa in straordinario sviluppo sia demografico che produttivo,e tuttavia incapace di percepire la crisi che ne minava le fondamenta. Il suo ruolo globale si esprimeva attraverso la competizione tra potenze tutte miranti all’egemonia. L’Europa degli Stati e staterelli, l’Europa divisa e divisa all’interno di ogni suo membro, celebrava la propria forza mentre nasceva il secolo americano («l’americanizzazione del mondo è il nostro destino» aveva detto Theodor Roosevelt nel 1898), e attraverso immani tragedie la Russia proseguiva nella sua occidentalizzazione per salvarsi dall’Occidente, iniziata con Pietro il Grande. Né l’imporsi di queste potenze titaniche, né il significato epocale del sorgere in Oriente di uno Stato-impero come il Giappone, bastarono a svegliare le potenze europee dal loro sonno dogmatico: la fede di essere ancora centro del mondo e di poter decidere a suo nome.
Due guerre mondiali e un’altra, “fredda” solo per i popoli occidentali, il vertiginoso crollo del peso dell’Europa sulla popolazione e sulla produzione di ricchezza mondiali, ci hanno per forza guarito da quel sonno. Ma abbiamo per ciò anche appreso a valutare il nostro ruolo geo-politico con modestia e realismo? A sentire certe dichiarazioni “di principio” dei nostri governanti sembra ancora di vivere all’epoca in cui era lecito pensare che la nostra “civilizzazione” stesse creando le condizioni per un “mondo nuovo”. Rispetto a simili ideali sono confrontate le “gesta” di americani e di russi, di cinesi e giapponesi e indiani. Non siamo in grado di approntare una decente politica comune per l’immigrazione, abbiamo fallito clamorosamente ogni presenza nel Mediterraneo, ma diamo lezioni di “diritti umani” al mondo. Condanniamo la politica di Putin in Ucraina e Crimea, ignorando l’intera storia della grande Russia nei confronti dei popoli slavi. Pensiamo di poter svolgere un ruolo nel conflitto decisivo tra Israele e palestinesi con retorici inviti al dialogo, mentre reali potenze geo-politiche intervengono con mezzi economici e militari di ogni tipo. Stiamo diventando i grilli parlanti del pianeta. Proprio nel momento in cui anche il secolo americano va tramontando e forse la profezia del grande poeta indiano Tagore, appunto di un secolo fa, che all’“immortale Oriente”, come al mietitore, giunga la sua ora, è prossima a realizzarsi.
Gli ultimi barlumi di un ruolo geo-politico europeo sono stati l’Ost-politik di Brandt e qualche reazione all’estremismo filo-atlantico da parte di leader italiani e francesi. Piccole glorie, frutto della “grande guerra” tra le sole due potenze vincitrici del ’45. Forti della necessità dell’integrazione economica rappresentata dalla moneta comune, si torni piuttosto seriamente a ragionare di quelle politiche senza di cui essa è destinata a restare un’incompiuta. L’Europa “del carbone e dell’acciaio” è oggi l’Europa di politiche sociali e fiscali tendenti realisticamente a convergere. L’Europa oggi davvero fedele al realismo dei suoi “padri” è quella che assimila in sé l’energia delle genti che vi vogliono abitare. Solo la piena attuazione della sua unità economica può dare un significato alla conclamata esigenza di un suo ruolo geo-politico (e perciò anche alle pretese di questo o quello per assumerne l’onore attualmente sinecura di “ministro degli esteri”).
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