domenica 28 settembre 2014

RENZI COME CRAXI. 4. BURGIO A., Si chiama Renzi ma sembra Ghino di Tacco, IL MANIFESTO, 24 settembre 2014

Non l’avesse mai pro­nun­ciato quel nome Susanna Camusso. «Renzi come That­cher»? Apriti cielo. Il lea­der mas­simo si è adon­tato e pron­ta­mente abban­do­nato all’aggressione ver­bale, come suo costume.



Anche il segre­ta­rio della Cisl si è molto infu­riato, alla vigi­lia del suo bru­sco pen­sio­na­mento. «Susanna ci rovina». Addi­rit­tura, povero Bonanni. Che si è subito dichia­rato pronto a trat­tare su tutto. Come se qual­cuno potesse dubitarne.
Ma poi è un para­gone ben strano, a guar­dar bene. Che biso­gno c’era di andare tanto lon­tano nel tempo e nello spa­zio, geo­gra­fico e poli­tico? L’analogia più cal­zante è un’altra, molto più pros­sima. Coin­volge un pre­de­ces­sore di Renzi a palazzo Chigi, anch’egli «di sini­stra». Anzi, il primo pre­si­dente del Con­si­glio «di sini­stra» dell’Italia repub­bli­cana.
Renzi come Craxi, si dovrebbe dire. Il quale fu in effetti, nel nostro paese, il primo lea­der di un par­tito di sini­stra a scon­trarsi fron­tal­mente, da capo del governo, con il sin­da­cato (con una sua com­po­nente essen­ziale) su un ter­reno a ele­vato poten­ziale sim­bo­lico. Lo scon­tro sull’art. 18 dello Sta­tuto dei lavo­ra­tori ricorda da vicino quello divam­pato giu­sto trent’anni fa sulla scala mobile. Ed è curioso che la segre­ta­ria gene­rale della Cgil rimuova que­sta ricorrenza.
Certo, ci sono molte dif­fe­renze. Allora si veniva da una lunga sta­gione di con­qui­ste nor­ma­tive e sala­riali, oggi il lavoro è alla canna del gas. Il pro­blema negli anni Ottanta era un’inflazione a due cifre, oggi sotto la cappa della Ue il guaio è l’accoppiata deflazione-recessione. L’urto vide allora con­trap­porsi net­ta­mente le due com­po­nenti sto­ri­che della sini­stra ita­liana (comu­ni­sti e socia­li­sti), con l’eccezione della «terza com­po­nente» di Vit­to­rio Foa, sulle posi­zioni della mag­gio­ranza della con­fe­de­ra­zione; oggi i con­fini sono molto più sfu­mati e tor­tuosi. E gli schie­ra­menti – in larga misura interni al Pd – fra­sta­gliati. Non facil­mente ricon­du­ci­bili a coe­renti ascen­denze poli­ti­che, come mostra l’operare pro-Renzi degli ex-miglioristi del Pci, die­tro ai quali si pro­fila il minac­cioso atti­vi­smo del capo dello Stato.
Non­di­meno le vicende si somi­gliano molto, soprat­tutto per ciò che con­cerne il signi­fi­cato dello scon­tro e i suoi poten­ziali effetti di medio e lungo periodo.
In entrambi i casi è in gioco una posta sim­bo­li­ca­mente pesante. L’idea che il lavoro sia un diritto richiama il prin­ci­pio della sal­va­guar­dia del sala­rio reale. Ne va dei rap­porti di forza nel con­flitto gene­rale di lavoro e del ruolo del sin­da­cato, che il governo, oggi come ieri, intende ridi­men­sio­nare o addi­rit­tura estro­met­tere. Come trent’anni fa, il tema domi­nante della poli­tica eco­no­mica del governo è l’austerità, la neces­sità dei sacri­fici e della mode­ra­zione sala­riale. E, come allora, anche in que­sti giorni a gui­dare l’attacco ai diritti acqui­siti dai lavo­ra­tori è una parte della «sini­stra», nella per­sona di un pre­si­dente del Con­si­glio che fa dell’offensiva anti­sin­da­cale e del deci­sio­ni­smo cifre carat­te­riz­zanti dell’azione del governo.
Allora come mai nes­suno sem­bra ricor­darsi del pre­ce­dente? Pare dav­vero una rimo­zione, che in parte si spiega con gli spet­tri che quel ricordo suscita. Si trattò effet­ti­va­mente di uno scon­tro cata­stro­fico per la mag­gio­ranza (comu­ni­sta) della Cgil e per il Pci, che volle e perse il refe­ren­dum sul decreto di san Valen­tino. Fu la seconda grande scon­fitta di quel decen­nio di tran­si­zione, dopo i 35 giorni alla Fiat.
Un evento che sortì effetti rovi­nosi, così per la Cgil (e per tutto il sin­da­ca­li­smo con­fe­de­rale) come per il Par­tito comu­ni­sta, che, già col­pito dalla morte di Ber­lin­guer, si sarebbe di lì a poco avvi­tato in una spi­rale distrut­tiva. Ma forse non è que­sto l’unico motivo dell’oblio. Ci fa fatica rian­dare a quei mesi a cavallo tra il 1984 e l’85 anche per­ché è dolo­roso rico­no­scere che spesso, nei pas­saggi cru­ciali delle crisi, la sini­stra si spacca. E che una parte di essa si pone alla testa dell’offensiva con­tro il lavoro, le sue con­qui­ste, i suoi diritti.
Già Gram­sci ebbe modo di notarlo riflet­tendo sulla ricor­renza dei feno­meni tra­sfor­mi­stici, e se ne fece una ragione chia­mando in causa le radici bor­ghesi di tanti capi del movi­mento ope­raio. Un secondo motivo con­si­ste pro­ba­bil­mente nella com­ples­sità delle sfide che pro­prio la crisi pone. Fuori por­tata per gruppi diri­genti assue­fatti alla rou­tine e all’ordinaria ammi­ni­stra­zione. Resta che la spac­ca­tura è nei fatti, e che l’errore più grave sarebbe igno­rarla o ridurla a una banale con­tro­ver­sia di opinioni.
Non c’è nulla di epi­so­dico in quanto sta avve­nendo, come nulla di occa­sio­nale avvenne trent’anni fa nello scon­tro sulla scala mobile. Non solo per­ché il ter­reno del con­flitto è fon­da­tivo, ma anche per la natura della muta­zione in corso. Che cosa signi­fica che il segre­ta­rio del mag­giore par­tito della «sini­stra mode­rata» non­ché capo del governo in carica ado­peri – com’è stato pun­tual­mente osser­vato – parole e schemi di pen­siero pro­pri della destra? Dif­fi­cile non vedere che con Renzi una tra­iet­to­ria giunge al ter­mine e una verità si rivela.
Gli urti, le resi­stenze, le con­vul­sioni di que­sti giorni sono sin­tomi tra­spa­renti della vio­lenza con cui sette anni fa (guarda caso, pro­prio men­tre scop­piava la grande crisi finan­zia­ria) si mise capo alla fon­da­zione del Pd. Vio­lenza nei con­fronti delle sto­rie e delle cul­ture poli­ti­che, delle ragioni e delle pas­sioni che ave­vano inner­vato per decenni la sto­ria del paese. Si pre­tese di can­cel­lare dif­fe­renze essen­ziali liqui­dan­dole – lo si con­ti­nua a ripe­tere – come cascami ideo­lo­gici. E si impose lo schema – que­sto sì, iper-ideologico – dell’equidistanza tra capi­tale e lavoro, che san­civa la fatale subor­di­na­zione di que­sto a quello. Non c’era biso­gno delle can­di­da­ture eccel­lenti dei Calearo e degli Ichino per capire. Eppure non si volle capire.
Oggi quella para­bola è al suo natu­rale punto di caduta. Renzi è il primo vero lea­der del Pd (Fran­ce­schini fu un luo­go­te­nente) non sol­tanto post-democristiano ma anche orga­ni­ca­mente e fie­ra­mente anti-comunista. Con lui l’idea di sini­stra muta di senso, con­for­man­dosi senza resi­dui alla costi­tu­zione mate­riale del neo­li­be­ri­smo. Di qui – non da un uso malac­corto della reto­rica poli­tica – l’enfasi sul mer­cato e sulla con­cor­renza, sui fan­nul­loni pub­blici e i pri­vati ope­rosi, sul merito indi­vi­duale e il grasso che cola dalla spesa sociale. Di qui anche l’attacco viru­lento alla vec­chia guar­dia del 25%. Non una voce dal sen fug­gita, ma una ine­qui­vo­ca­bile dichia­ra­zione d’intenti, a suo modo lim­pida e franca.
Se que­sto è vero, non c’è che una strada, per quanto resta effet­ti­va­mente di sini­stra nel par­tito ren­ziano, per non con­se­gnarsi più o meno inerti a un’agonia. E forse anche per aprire una pagina nuova nella sto­ria del paese. Ridi­scu­tere tutto, costi quel che costi, del pro­getto demo­cra­tico e dei troppi passi com­piuti, in que­sti anni, nel solco della restau­ra­zione libe­ri­sta. E trarne con corag­gio le con­se­guenze, senza lasciarsi inti­mi­dire dall’ennesima inau­dita intro­mis­sione del Quirinale.
Renzi aggre­di­sce, pro­voca, mara­mal­deg­gia, ma arranca su tutti i fronti. Sarebbe pron­ta­mente disar­cio­nato se anche la sini­stra demo­cra­tica si oppo­nesse alle sue con­tro­ri­forme, gra­dite alla destra e al padro­nato. E sarebbe per di più costretto al voto anti­ci­pato (Napo­li­tano dovrebbe ras­se­gnarsi dinanzi a una ferma posi­zione del par­la­mento) con il con­sul­tel­lum, che spez­ze­rebbe la cami­cia di forza che da vent’anni impri­giona la sini­stra ita­liana. Diver­sa­mente non si trat­te­rebbe di pru­denza o ragio­ne­vo­lezza, ma solo di autoin­ganno e di un tra­gico malinteso.
Come voler tirare di fio­retto con­tro chi attacca imbrac­ciando un mitra.

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