oggi per l’Europa si aggira un nuovo spettro: lo spettro delle riforme. Questo spettro non mette certo in allarme i ceti privilegiati. Al contrario, esso si prepara a consolidarne le rendite di posizione.
Ma le riforme non erano tradizionalmente uno strumento di progresso sociale? Un tempo, forse. Negli ultimi anni il concetto di riforma è stato «scippato» al lessico storico della sinistra, rovesciato nel suo significato e reso funzionale alle politiche neoliberiste. Cosa sono, in definitiva, queste benedette riforme invocate da ogni parte politica (e dette altrimenti – con un tono un po’ collodiano – «compiti a casa»)? È presto detto: più flessibilità e precarietà del lavoro, meno stato sociale, più privatizzazioni, meno impacci per l’impresa privata e via di seguito.
Riforme necessarie, ci dicono da ogni parte. Chi si azzarda a far notare che queste cosiddette «riforme» sono in realtà provvedimenti stantii e fallimentari – gli stessi che hanno provocato la crisi attuale – è subito bollato come utopista, estremista e menagramo.
Questo paradossale riformismo ha in Italia una sua traduzione tutta particolare. Qui da noi le riforme – sia quelle che «ci chiede l’Europa», sia quelle che inventiamo autonomamente – si traducono spesso in un mutamento continuo delle norme varate dai governi precedenti, in una forsennata e spesso irrazionale corsa all’innovazione legislativa. È quello che potremmo chiamare il «riformismo di Penelope»: un costante fare e disfare le leggi, un mutamento perpetuo del quadro normativo finalizzato – si presume – a rendere l’Italia un paese sempre più efficiente e moderno.
Questo paradossale riformismo ha in Italia una sua traduzione tutta particolare. Qui da noi le riforme – sia quelle che «ci chiede l’Europa», sia quelle che inventiamo autonomamente – si traducono spesso in un mutamento continuo delle norme varate dai governi precedenti, in una forsennata e spesso irrazionale corsa all’innovazione legislativa. È quello che potremmo chiamare il «riformismo di Penelope»: un costante fare e disfare le leggi, un mutamento perpetuo del quadro normativo finalizzato – si presume – a rendere l’Italia un paese sempre più efficiente e moderno.
Prendiamo ad esempio il caso del settore scolastico e universitario, tormentato da continue riforme spesso dannose e inutili, e ispirate a un malinteso efficientismo. Viene il sospetto che questo continuo riformare sia in realtà un «effetto fumogeno» volto a celare la vera, grande controriforma di questi ultimi anni: la riduzione di risorse pubbliche destinate al sistema dell’istruzione.
La variante italiana del neoriformismo europeo si presenta ora nelle vesti del «nuovismo» e del «giovanilismo» di marca renziana, dietro cui si cela una prassi di governo del tutto coerente con il pensiero unico che domina da trent’anni. La rapidità con cui vengono approvate le riforme renziane non equivale a efficienza, ma è sintomo piuttosto di uno svuotamento di significato dei passaggi parlamentari. Renzi e i suoi spumeggianti ministri sembrano insofferenti rispetto ai «riti parlamentari», e lo dimostra l’enfasi posta sulla riforma del senato.
Ma in Italia non è Renzi ad avere stravolto per primo il significato tradizionale del riformismo. Negli ultimi anni quasi tutti i partiti della maggioranza e dell’opposizione, dichiarandosi tutti autenticamente «riformisti», hanno invocato e realizzato una molteplicità di riforme: della Costituzione, della magistratura, del sistema elettorale, del mercato del lavoro, del sistema pensionistico, della sanità. L’elenco sarebbe davvero lungo. Ma il riformismo tanto in voga negli ultimi tempi ha ancora qualcosa in comune con il riformismo storico della tradizione socialista? Purtroppo no. Il concetto di riforma risulta del tutto stravolto rispetto alle caratteristiche che aveva assunto nel Novecento.
C’è una profonda discontinuità che separa il riformismo storico della tradizione socialista e socialdemocratica dal neoriformismo attuale che, più che configurarsi come un’evoluzione del primo, ne rappresenta al contrario l’antitesi.
Questo ribaltamento è un sintomo della perdurante egemonia culturale e politica del pensiero liberale e del liberismo. Il neoriformismo costituisce una variante di un pensiero unico liberal-liberista del tutto pacificato con l’esistente ed estraneo ad ogni ipotesi di alternativa di sistema.
Fino agli anni Settanta il riformismo fu il terreno d’azione di diverse forze politiche di sinistra, nonostante il termine fosse poco presente a livello programmatico. Anche i comunisti, storicamente avversari del socialismo riformista, accettarono un terreno di lotta politica sostanzialmente riformista. A partire dagli anni Ottanta, invece, nonostante la diffusione di dibattiti sul riformismo, apparvero i primi segni di un distacco dai punti di riferimento tradizionali: il decennio fu il preludio alla crisi e, se si vuole, al “tradimento” del riformismo. In nome di quest’ultimo, infatti, a partire da allora, in un percorso che arriva fino a oggi, è stato portato avanti un «ritorno all’ordine» in senso capitalistico.
Se qualche vero riformista del passato (uno a caso: Filippo Turati) giungesse nell’Italia di oggi e vedesse quante «riforme» vengono invocate e realizzate potrebbe quasi pensare che il socialismo sia vicino. Poi si accorgerebbe che non è affatto così.
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