Alla storia non piacciono percorsi «lineari e ragionevoli»: contrastano con il suo senso dell’ironia e con la tessitura complessa delle vicende umane. Alla fine degli anni Ottanta del secolo scorso, nell’imminenza della crisi che di lì a poco avrebbe travolto il sistema politico del nostro Paese, che cosa ci sarebbe stato di più lineare e ragionevole di un riassetto che avesse creato in Italia le stesse condizioni che prevalevano nei più importanti Paesi europei: due grandi forze politiche, entrambe legittimate a governare, tra loro in alternanza? La conventio ad excludendum verso il Pci stava per cadere e con essa l’anomalia di un’alleanza necessaria tra la Democrazia cristiana e il Partito socialista. E quanto era avvenuto pochi anni prima in Francia mostrava un possibile percorso: la grande riforma costituzionale gollista era stata utilizzata da un abile politico socialista per raggiungere un doppio risultato, prevalere sull’alleato comunista e sconfiggere il centrodestra nelle elezioni presidenziali. Questa via si rivelò impercorribile in Italia: una riforma di tipo presidenzialista e maggioritario in Francia era già stata fatta, mentre in Italia i due più grandi partiti non la volevano e il Partito socialista non aveva la forza per imporla.
Il «ragionevole e lineare» obiettivo di fare della Dc un grande partito di centrodestra e dell’alleanza tra Pci e Psi un grande partito di centrosinistra si scontrava con poderose forze di path dependence, di trascinamento dal passato: solo pochi dirigenti, nella Dc, erano in grado di immaginare un futuro di grande partito di centrodestra, come la Cdu tedesca; e nell’area di centrosinistra la forza maggiore non poteva rassegnarsi a un predominio politico e culturale socialdemocratico, a diventare una Spd italiana. Fu così che Berlusconi e Bossi riuscirono a sfilare dalla Dc gran parte del suo elettorato e l’area di centrosinistra entrò nelle convulsioni che tutti ricordiamo: la distruzione di un partito che tuttora rappresenta la sinistra di governo nei grandi Paesi europei, le esitanti transizioni dei comunisti (Pds, Ds), l’Ulivo e la riluttanza a costruire un vero partito di sinistra democratica (ricordate le polemiche sul centro-sinistra, con o senza trattino?), fino allo sbocco finale del Partito democratico. Ma solo con la leadership di Renzi sembra (…ripeto: sembra) essersi formato qualcosa che ha il soffio vitale di un partito vero, superando i mercanteggiamenti e le esitazioni delle vecchie élite politiche della sinistra democristiana e del Partito comunista, che fino ad un anno fa hanno guidato (…si fa per dire) l’Ulivo e il primo Pd.
Fosse solo per averci ricordato quantum mutatum ab illo, le somiglianze e le differenze tra l’epoca di Craxi e quella di Renzi, varrebbe la pena di leggere l’ottavo volume della collana Marsilio «Gli anni di Craxi», gli atti dei convegni promossi dalla Fondazione Socialismo tra il 2005 ed oggi: Decisione e processo politico. La lezione del governo Craxi (1983- 1987). Come il titolo riassume e la nota iniziale di Gennaro Acquaviva chiarisce, il confronto tra lo ieri di Craxi e l’oggi di Renzi non era il proposito del convegno tenutosi nel giugno del 2013, prima che il «fenomeno Renzi» si manifestasse in tutta la sua evidenza. Il convegno e le relazioni pubblicate nel libro riguardano le capacità di decisione di Craxi negli anni in cui fu presidente del Consiglio, e «la dote, che fu particolarmente sua, di saper prendere decisioni politiche serie e rischiose con freddezza e al momento giusto, costruendosi contemporaneamente condizioni e forza sufficienti a fargli convogliare sulla decisione un consenso ampio e solido, in grado di portarlo alla realizzazione della decisione stessa». Ma accanto a ricostruzioni storiche più o meno complete, dettagliate ed efficaci delle decisioni difficili che a Craxi accadde di prendere (il decreto di san Valentino e il confronto con le parti sociali, Sigonella e il confronto con gli Stati Uniti, il G7 di Tokyo, il Concordato con la Chiesa: gli autori dei saggi sono De Michelis, Badini, Acquaviva), il libro contiene analisi più vaste sulla situazione politica e istituzionale in cui Craxi e il Psi si trovarono ad operare (Amato, Covatta, Marucci, Scoppola Jacopini, Mammarella); riflessioni filosofiche e politologiche sul quantum di decisionismo possibile e auspicabile in una democrazia (Cacciari, De Rita, Pellicani); e soprattutto un ampio apparato documentale sulla discussione che si svolse in quegli anni — su giornali e riviste, ma anche in sedi più impegnative — sul sistema politico italiano e sulle radici istituzionali della sua scarsa capacità decisionale.
È proprio quest’ampiezza di analisi ed orizzonti — ben oltre i riferimenti a singoli casi di decisioni coraggiose ed efficaci, ma ormai storicamente datate — che induce il lettore di oggi a chiedersi quanto sia mutato e quanto sia rimasto uguale tra l’oggi di Renzi e lo ieri di Craxi. Avendo scritto la sua prefazione più tardi dei saggi inclusi nel volume — dopo la conquista del Pd e del governo e soprattutto la vittoria nelle elezioni europee da parte di Renzi — soltanto Craveri accenna a un confronto diretto: «Dopo vent’anni di Seconda Repubblica, passati a non affrontare alcun problema storicamente rilevante, approfondendosi sempre di più la crisi socio-istituzionale ed etico-politica della nazione, un “decisionista” è apparso sulla scena, speriamo non troppo inconsapevole del passato e delle difficoltà presenti, che come Craxi ha messo in riga il suo partito, portandolo ad un successo elettorale che il leader socialista non era mai riuscito a conseguire, determinato ad aprire i cassetti e perseguire gli obiettivi che già negli anni Ottanta erano stati messi all’ordine del giorno, senza essere conseguiti per un altro trentennio». Si tratta però solo di un accenno, cui seguono poche considerazioni, condivisibili ma insufficienti a rappresentare lo iato che separa la situazione affrontata da Craxi da quella che ora affronta Renzi.
Tra i due ci sono somiglianze evidenti: entrambi sono uomini di partito, e di partiti che affondano le loro radici nelle grandi tradizioni politiche europee. Essi possono adottare metodi populistici, ma non sono leader populisti emersi da ondate instabili di insoddisfazione popolare e senza legami con le tradizioni politiche del passato: nessuno è più lontano da loro di un Beppe Grillo. Ed entrambi hanno una visione analoga della lotta politica: conquista di una egemonia forte nel proprio partito al fine di condurlo ad una lotta vincente nei confronti delle altre forze politiche, quella concezione weberiana di una «democrazia con un leader» che Luciano Cavalli illustra assai bene nell’appendice documentale del libro.
Nonostante la sua grinta decisionista, Craxi era un profeta disarmato, costretto dalle piccole dimensioni del suo partito e dal peso soverchiante di comunisti e democristiani — due forze profondamente conservatrici — ad abbandonare l’idea della «grande riforma» istituzionale che pure aveva lanciato. E non appena mostrava i suoi aspetti decisionisti trovava subito un Forattini che lo raffigurava con gli stivaloni e l’orbace di Mussolini. Anche il decisionismo di Renzi ha i suoi critici, più sofisticati ma non meno astiosi di Forattini: viene però dopo vent’anni di Seconda Repubblica, in cui le idee di uno scontro bipolare e di un partito con un leader si sono profondamente radicate nel Paese e nel ceto politico. E il partito che Renzi ha conquistato è un grande partito, che sembra in grado di imporre le riforme istituzionali che Craxi non era riuscito ad affrontare. Nel frattempo la situazione economicosociale si è profondamente deteriorata: anche se le riforme istituzionali avranno successo, è tutto da vedere se il decisionismo di Renzi reggerà alla prova delle ben più ardue riforme economico-sociali da cui dipende la rinascita del nostro Paese.
Due brevi considerazioni finali. La prima è che Renzi farebbe bene a riflettere sull’esperienza di Craxi, com’è rappresentata dal libro che sto commentando. A tutta la sua esperienza, ma in particolare alle difficoltà che insorgono in Italia quando un leader decisionista assume il duplice ruolo di segretario del proprio partito e di capo del governo: è il saggio di Scoppola Iacopini (Accentratore o decisionista? Craxi e la guida del Psi) che dovrebbe essere oggetto di particolare attenzione. La seconda considerazione è un auspicio. Dicevo all’inizio che alla storia non piacciono percorsi lineari e ragionevoli. E aggiungo una fulminante battuta di Flaiano: che, in Italia, la linea più breve che unisce due punti non è la retta, ma il ghirigoro. Di ghirigori, nei più di vent’anni che sono passati dai tempi di Craxi, ne abbiamo visti tanti e i due punti che devono essere congiunti — la Prima Repubblica ed una vera Seconda Repubblica di stampo europeo — restano sempre distanti. Abbia o meno successo, Renzi sta affrontando la sua parte del compito: la riorganizzazione del centrosinistra come partito capace di decidere in un contesto profondamente diverso rispetto al passato. È il centrodestra che non riesce a venire a capo della difficile eredità berlusconiana: se si vogliono evitare ulteriori ghirigori e rigurgiti populisti, sarebbe bene che ciò avvenisse in tempi non biblici.
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