Secondo alcuni l’inizio di ogni guaio data ancora lì, alla grande delusione per il voto di primavera, la batosta in Veneto, la sconfitta in Liguria, ad Arezzo, a Venezia...
Un colpo secco e inatteso, insomma, a quell’alone di invincibilità che circondava Matteo Renzi e che ha messo in crisi progetti, strategie e certezze del segretario-premier.
Per altri, invece, non avrebbe potuto che finire così: con la crisi dell’«uomo solo al comando» e con la sua squadra - il partito, il Pd insomma - prima sfiancata dagli strappi del leader e poi arrabbiata e confusa da una direzione di marcia che non ama e non capisce. Una direzione di marcia - per altro - che ormai nemmeno i sondaggi premiano più.
Per Matteo Renzi non sono giorni facili, e dal fortino di palazzo Chigi non gli sfuggono i segnali che testimoniano un evidente appesantimento della situazione. Ma non sono giorni facili nemmeno per il Pd, una comunità in via di «trasformazione coatta» e che, dopo tanto inutile discutere di partiti «solidi» oppure «liquidi», ha scoperto che - proprio come in fisica - esiste un terzo stato cui potersi ridurre: quello gassoso. Un partito gassoso, sì: cioè impalpabile. E talvolta addirittura invisibile.
È su un partito così che 48 ore fa si è abbattuta una giornata che ha fatto deflagrare tutte le difficoltà che circondano ormai da tempo Renzi e il Pd. La libertà di coscienza lasciata nel voto sull’arresto del senatore Azzollini ha seminato sconcerto tra iscritti ed elettori Pd, rimasti poi sgomenti di fronte al siparietto delle tesi contrapposte espresse dai due vicesegretari - Guerini e Serracchiani - circa l’opportunità di quella scelta. «Non vi voto più - hanno scritto molti -. Siete come gli altri».
Né meno doloroso, per sostenitori e militanti, è stato assistere - nella stessa giornata - alla nascita del gruppo di senatori verdiniani, col corollario di voci che lo accompagna: entreranno nel Pd, si farà il Partito della Nazione, serviranno a liquidare la minoranza interna... Dulcis in fundo, la decisione di procedere alla nomina del nuovo Cda Rai ancora con la famigerata legge Gasparri: uno dei bersagli preferiti di Matteo Renzi al tempo della sua ascesa garibaldina.
Già, dov’è finito il «rottamatore»? L’interrogativo aleggia ormai con preoccupazione tra le stesse fila dei «fedelissimi». Il Renzi che ingaggia e perde un braccio di ferro con Ignazio Marino, non è il Renzi che conoscevano. E non somiglia certo all’«uomo della Leopolda» il premier-segretario che benedice il voto su Azzollini, che nello scontro tra Crocetta e Lucia Borsellino resta in silenzio e che riporta in auge la legge Gasparri: ritrovandosi senza maggioranza al Senato per i «no» della minoranza pd.
Nel pieno del processo di scongelamento dopo il ribaltone che nel febbraio 2014 gli costò il governo, ieri Enrico Letta ha affidato queste parole a «Il Fatto quotidiano»: «C’è una mutazione genetica del sistema dei partiti che, anche nel campo del centrosinistra, si traduce nella personalizzazione esasperata della leadership, nell’egotismo, nell’ossessione per il consenso immediato, nell’umiliazione dei corpi intermedi». Oggetto della polemica, naturalmente, è Matteo Renzi. Si tratta di obiezioni che conosce a memoria: ma alle quali - da molti sondaggi in qua - non può più rispondere «sarà, ma vinco e ho portato il Pd al 40%...».
Dov’è finito, dunque, il «rottamatore» che tanti entusiasmi e speranze aveva suscitato anche fuori dal Pd? E cosa sta diventando il Partito democratico, la creatura così fortemente voluta dal tandem Prodi-Veltroni? Alla seconda domanda ieri ha mestamente risposto Matteo Orfini, presidente del Pd, commentando la sconfitta del governo al Senato sulla Rai: «Se il voto in dissenso dal gruppo diventa una consuetudine, significa che si è scelto un terreno improprio per la battaglia politica: così non si lavora per rafforzare il partito ma per smontarlo».
Smontare il Pd. Qualcuno ci pensa, forse; qualcun altro (da Civati a Fassina a Cofferati) ha avviato i lavori: un partito gassoso, infatti, con una «leadership egotista e ossessionata dal consenso», non era precisamente il modello immaginato dai «padri fondatori». E mentre iscritti ed elettori cercano di capire se è Renzi ad aver sbagliato partito o il Pd ad aver sbagliato leader, la crisi si avvita e rischia di produrre danni irreparabili anche sul piano elettorale.
Possibile uscirne? E come? Difficile dirlo: ma vista l’aria che si respira nel Pd, il confronto e il dialogo non sembrano più una via per raggiungere l’obiettivo. E infatti, così come qualcuno disse che la guerra è la prosecuzione della politica con altri mezzi, così oggi qualcun altro teorizza che potrebbero essere le elezioni anticipate, in questo caso, la prosecuzione del confronto: ma per chiuderlo definitivamente.
«Mi chiedo per quanto ancora si debba sopportare questo atteggiamento da parte della minoranza bersaniana - ha minacciato ieri Roberto Giachetti, renziano e vicepresidente della Camera -. In queste condizioni meglio andare al voto, e fare una volta per tutte chiarezza dentro al partito». Dove per chiarezza s’intende, evidentemente, ridurre a uno stato ancor più gassoso gli oppositori interni: nella convinzione - in questo caso temiamo fallace - che liquidazione sia uguale a soluzione...
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