Le parole sono: paura e vergogna. Della vergogna «dell’Europa più che di Salvini» ha parlato Liliana Segre, senatrice, custode della memoria e guardiana di un linguaggio che in queste settimane, anzi in questi ultimi anni, molti di noi - a destra come a sinistra - abbiamo cercato di rimuovere, dimenticare, gettare nell’oblio. Dare il nome alle cose, sembra un esercizio da persone ingenue, nel migliore dei casi, o da profittatori e agenti di chissà quali oscure potenze che usano masse di ignari e manovrabili derelitti (quasi tutti privi di nome) che invadono le nostre coste, violano il nostro territorio, calpestano il nostro bagnasciuga, abusano della nostra generosità.
E allora, cerchiamo di dare davvero i nomi alle cose. Senza perifrasi. Su una questione il ministro dell’Interno ha ragione: la crisi dei migranti, la gestione dei flussi degli esseri umani che dall’Africa e dalle altre parti del mondo tentano di arrivare nel nostro Continente è un affare europeo. Peccato che lui, come i suoi amici Orbán, Kaczynski e la banda di Visegrad, all’Europa hanno già detto da tempo addio; e la costruzione di un destino e un futuro comune l’hanno abbandonata per optare a favore di una retorica nazionalista, spesso etnocentrica, sovranista. Le vittorie (provvisorie come tutte le vittorie) di quella gente portano in serbo altri conflitti e potenziali guerre.
Ma torniamo alla vergogna e alla paura. Partendo da una riflessione di un intellettuale cosmopolita, vittima (più volte) e avversario (per scelta) di ogni nazionalismo, di ogni chiusura delle menti e dei porti. Partiamo da una riflessione quasi marginale, in apparenza fatta a caso, di Zygmunt Bauman. Era l’anno 2007, un anno prima dell’inizio della grande crisi, di quell’evento che da una decade ormai rende insicuri non solo i nostri risparmi e posti di lavoro, ma che ha messo in questione la stessa parola avvenire.
Bauman stava scrivendo uno dei suoi numerosi libri, intitolato “L’arte della vita”. E tra le altre cose ragionava sui casi delle persone, nella storia europea, per le quali (parole sue) «il senso della vergogna era più forte della paura della morte». Intendeva coloro che mettevano a rischio la propria vita, pur di salvare le vite degli ebrei durante la Seconda guerra mondiale, ma anche degli eroi delle lotte per la libertà e la dignità umana di quei Paesi (Polonia, Cecoslovacchia, Ungheria, Russia) che oggi sono all’avanguardia nel calpestare ogni concetto della dignità umana; e a cui come a un faro guardano certe forze politiche italiane.
Diceva il sociologo e filosofo polacco, esule in Inghilterra: per queste persone il senso della vergogna era più forte della paura della morte. Erano eroi? Forse, ma prima di tutto erano uomini e donne che nell’altro, in colui che soffre, che viene umiliato e privato di ogni diritto, perfino del diritto alla vita, vedevano un fratello, una sorella, un altro io. E per parafrasare Hannah Arendt: la banalità del male è l’assenza dell’empatia. O forse quella cosa che due sopravvissuti alla Shoah, la senatrice Segre, appunto e il comandante in seconda della rivolta nel ghetto di Varsavia, Marek Edelman, hanno chiamato “indifferenza”. L’indifferenza, spesso, equivale alla condanna a morte. Parlando dell’Europa e muovendo oggi accuse (giuste) all’Europa conviene ricordarselo.
C’è una parola di cui abbiamo fatto abuso (anche noi di sinistra) e che per le destre, per tutti gli imprenditori della paura è un termine chiave, un lemma che deve incutere terrore. La parola è “clandestino”. Ma che cosa è un clandestino? La risposta è semplice: è un essere umano sprovvisto di documenti che gli permettono di spostarsi, più o meno liberamente, nel mondo. Il cittadino di uno dei Paesi benestanti, munito di regolare passaporto ha tutti i diritti e tutti i mezzi di trasporto a sua disposizione. Il clandestino, invece no. Il clandestino per spostarsi deve rischiare la vita. Quando diciamo “clandestino” diciamo anche, quella persona ha meno diritto a vivere di noi; e non perché ha commesso delitti, ma perché è nata in un posto sbagliato. Di clandestinità è morto Walter Benjamin, quando si suicidò alla frontiera tra Spagna e Francia; aveva paura di essere consegnato ai tedeschi, perché sprovvisto di validi documenti. Facile oggi versare una lacrima, ricordando quell’uomo e il suo Angelo della Storia che con le ali spiegate e sospinto dal vento contempla le macerie del mondo. Ma, siamo onesti: chi pensa che è giusto perseguitare i clandestini, come Benjamin e come lo era Arendt, farebbe bene ad astenersi dalla partecipazione alla Giornata della Memoria il 27 gennaio, anniversario della liberazione di Auschwitz (e sia chiaro: parliamo per assonanze e non per analogie; comune tra le due situazioni è l’indifferenza, non il meccanismo della morte).
Nello specchio del clandestino
La parola clandestino, ci riporta alla paura e anche alla resa della sinistra di fronte alla narrazione xenofoba e di destra. Facciamoci una domanda: di che cosa abbiamo paura, quando parliamo degli immigrati? Fermo restando - occorre ripeterlo - che non è né giusto né possibile che un solo Paese affronti un fenomeno di portata epocale, perché proviamo paura quando parliamo degli immigrati e degli stranieri? La risposta non è difficile. Viviamo nei tempi del divorzio tra politica e potere. E anche tra capitale e territorio. Ecco, i politici non sono in grado di governare, possono solo fare delle promesse sapendo di non poterle mantenere, perché le decisioni riguardanti la nostra vita e la nostra sovranità sono prese altrove. Il volto del potere, all’epoca della globalizzazione, è anonimo come forse non lo era mai stato nella storia dell’umanità. Per carità, nessun grande vecchio né cospirazioni; ma per fare un esempio banale, un fondo pensionistico delle vedove dei pompieri di qualche parte del Canada può influire sul nostro reddito più che le lotte sindacali. Lotte che peraltro, nella nostra stanca Europa sono sempre più rare, perché con la delocalizzazione delle imprese e quindi la separazione tra capitale appunto e il territorio anche la sinistra è più uno stato d’animo che espressione di classe e di interessi sociali.
In questo contesto, per tornare ad altri scritti di Bauman, il migrante, lo straniero, colui o colei che fugge dalle guerre, dalle carestie, dalla fame, è il messaggero della cattiva notizia. L’immigrato, il clandestino è come uno specchio: vi vediamo la nostra mancanza di sicurezza; la nostra radicale sfiducia in un avvenire migliore per noi e per i nostri figli, la precarietà della nostra esistenza e del nostro status sociale. La sinistra, una volta era la portatrice e l’agente del futuro: democrazia, progresso, benessere, libertà erano concetti legati indissolubilmente l’uno all’altro. La sinistra era ottimismo e quindi volontà di lottare. Solidarietà era uno strumento utile perché la vita, ne eravamo certi, sarebbe stata migliore, nell’avvenire, appunto.
Oggi abbiamo paura. E la paura favorisce la destra; perché la destra è nostalgia del passato; chiusura; mancanza di immaginazione. E la sinistra, va detto, alla paura ha ceduto. Si può discutere su dove sia stato raggiunto il punto del non ritorno, in Italia come altrove in Europa. Forse, non andava abbandonato il progetto di estendere la cittadinanza italiana a chi qui ha studiato e qui è cresciuto; forse, anziché cercare di limitare i flussi migratori trattando coi libici, andava fatto uno sforzo in più per coinvolgere l’Unione europea nella gestione del fenomeno. In ogni caso le sinistre, qui nel Vecchio Continente hanno ceduto alla narrazione delle destre. Hanno detto, tutto sommato: noi faremo meglio delle destre ciò che le destre promettono ma non sono in grado di fare. E anche: lo faremo con un po’ più umanità (e non è poco).
E allora, forse occorre cambiare registro; emanciparsi dall’egemonia culturale e linguistica della destra. Per esempio, tornare a pensare che non siamo individui soli e isolati, che il futuro è un’impresa collettiva, immaginata da un insieme di persone e forze sociali che non hanno paura. E ogni tanto ammettere: proviamo vergogna, senza paura di sentimentalismo.
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