Come è sotto gli occhi di tutti, il governo Conte può giovarsi non soltanto del tradizionale periodo di luna di miele di cui gode normalmente ogni nuovo esecutivo, ma anche della scomparsa di qualunque significativa opposizione. Una tale assenza appare del tutto naturale sul fronte destro dello schieramento politico: FdI guarda benevolmente a un governo nel quale non avrebbe disdegnato di entrare, mentre Forza Italia non può certo avere un atteggiamento ostile verso chi, la Lega, potrebbe essere di nuovo suo alleato in una forse non lontana competizione elettorale.
Quel che piuttosto colpisce è la sostanziale latitanza del Partito democratico, dal quale non sono venute né una riflessione seria sulle ragioni della sconfitta elettorale né una critica alla politica del governo che avesse un vero spessore politico. Il reggente del Pd Maurizio Martina, a un giornalista che gli chiedeva cosa pensasse del fatto che la politica del governo verso l’immigrazione gode di un vasto consenso, ha risposto: «l’umanità viene prima di qualsiasi sondaggio». Posizione nobile, se si vuole, ma anche profondamente impolitica, che rinuncia preventivamente a interrogarsi sulle ragioni di quel consenso, attribuibili magari, più che a un sotterraneo razzismo degli italiani tutto da dimostrare, a paure, insicurezze, domande di protezione che il Pd sembra non voler neppure tentare di intercettare (ci aveva provato l’ex ministro dell’Interno Minniti, proprio per questo non molto amato a sinistra). Gli esponenti del partito di Martina potrebbero chiedersi, insomma, se molti di coloro che approvano la politica «muscolare» del ministro Salvini (spesso ex elettori Pd) lo facciano perché davvero ne condividono in tutto e per tutto certe (censurabili) dichiarazioni come quella sul censimento dei rom o non, piuttosto, malgrado quelle dichiarazioni; se, insomma, approvano quella politica perché almeno trovano nel leader leghista una risposta a domande alle quali altri non ha saputo o voluto dare ascolto.
Denunciare il fatto che il ministro Salvini «cavalca le paure» degli italiani, come hanno fatto più volte esponenti del Pd è del tutto sterile, se non ci si interroga sul malessere reale che si intravvede dietro quelle paure. Lo stesso bistrattatissimo sovranismo potrebbe segnalare non la presenza, in una parte dell’opinione pubblica, di simpatie per la «democrazia illiberale» rivendicata da Victor Orbán, bensì la speranza, non del tutto infondata, che solo il proprio Stato-comunità possa proteggere quanti si sentono emarginati, sconfitti, esclusi o comunque spaventati dalla società globalizzata.
Invece di porsi interrogativi del genere, invece di interpretare certi sentimenti profondi, anche certe pulsioni molto grezze (come spesso è, però, di tutto ciò che attiene al mondo dei sentimenti collettivi), il gruppo dirigente del Pd sta battendo purtroppo un’altra strada. Sta battendo, accompagnato da intellettuali e giornalisti che si sentono parte di una sempre meno facilmente definibile «sinistra», la vecchia strada consistente nel rivendicare quasi orgogliosamente la contrapposizione tra noi, che saremo pure minoranza ma vivaddio difendiamo «la ribellione morale, l’empatia, l’appello all’unità dei più deboli», e loro, che sono invece animati da «cinismo, indifferenza, caccia al consenso fondata sulla paura». Questa contrapposizione, che qui ho ripreso con le recenti parole che campeggiavano sull’infelice copertina di un settimanale, non fa che riproporre l’idea di un conflitto inconciliabile tra due Italie — quella di chi votava per Berlusconi e di chi invece per il centrosinistra — che dopo il 1994 caratterizzò per vent’anni il dibattito pubblico italiano. Ci fu allora chi, a sinistra, arrivò a parlare di una «cortina di ferro antropologica» che separava i due schieramenti del bipolarismo italiano. Ma questa idea di un conflitto tra due mondi inconciliabili risaliva ancora più indietro, all’esaltazione della «diversità» comunista (una diversità anzitutto morale) sostenuta da Berlinguer. Si trattò di una posizione che incontrò allora le critiche anche di alcuni dirigenti del Pci, da Napolitano a Natta (quest’ultimo, nel suo diario, lamentava «il tono moralistico, settario, nel senso di una superiorità da eletti, da puri», della posizione berlingueriana); ma diventò rapidamente egemone. Renzi, che per età e storia personale non appartiene alla tradizione del post-comunismo, sembrava aver guarito la sinistra italiana dal «complesso dei migliori» (come lo ha definito in un suo libro Luca Ricolfi). C’è da sperare che, uscito lui di scena, quel complesso – e con esso l’illusione di poter dividere l’Italia in buoni (noi) e in cattivi (loro) – non ritorni di nuovo in auge.
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