Fino a poche ore fa, una parte della magistratura inquirente e pressoché tutti i mezzi di informazione hanno accreditato un identikit del responsabile dell’attentato di Brindisi, ricostruito attraverso diversi tratti psicologici e fisici. Tra questi, una evidente zoppia, tale da renderlo “claudicante”.
Viene in mente – è fatale – il Cesare Lombroso che, sulla scorta della testimonianza di «un giudice, l’egregio avvocato Spingardi», accreditava la tesi secondo la quale non esisterebbe un «anarchico che non fosse segnato o zoppo, o gobbo». E siccome, ancora a proposito di questa strage, si è parlato di “terrorismo”, ecco che il passo malfermo del possibile attentatore è sembrato costituire, se non una prova, un inquietante indizio. A ciò si aggiunga il fatto che il presunto colpevole – come se non bastasse – rivelerebbe “un braccio offeso”.
Tutto questo all’interno di uno scenario che, in un brevissimo lasso di tempo, ha mostrato contorni piuttosto pericolosi. E ha confermato quella che appare una terribile legge: quanto più un delitto è efferato tanto più sembra esigere una risposta per lo meno altrettanto efferata da parte dell’opinione pubblica. E’ una legge implacabile, che richiama umori elementari, sentimenti oscuri, antiche pulsioni. E’ comprensibile. L’orrore, suscitato da determinati crimini sembra poter trovare pace solo se si traduce in altro orrore; solo se la ferita viene cauterizzata dalla sofferenza inflitta a chi sta all’origine di quel male; solo se l’urlo della vittima viene soffocato dall’urlo ancora più straziante dell’autore del crimine. In poche parole: sangue chiama sangue.
A ben vedere, siamo sempre là. Il processo di civilizzazione che le società democratiche hanno faticosamente conosciuto non esorcizza i demoni. E lo stato di diritto non si dà una volta per tutte: non è una conquista definitiva e irreversibile e, tantomeno, un sistema compiuto e armonioso. Quell’ordinamento fatto di diritti e garanzie, regole e tutele, conserva tuttavia tracce degli ordinamenti che lo hanno preceduto, dei loro elementi primitivi e delle loro componenti per così dire selvagge: e conserva, soprattutto, memoria delle dinamiche di violenza e dei dispositivi di potere che costituivano, fino a non troppi secoli fa, la struttura dell’amministrazione della giustizia. Dominava, allora, una concezione tribale del diritto, che prevedeva una giustizia sostanzialmente privata: il corpo del reo veniva affidato ai familiari della vittima che ne traevano vendetta.
La storia del diritto moderno è storia del superamento di questa concezione barbarica della giustizia. Il compito di amministrare quest’ultima viene affidato dallo Stato a un’autorità terza e neutra, che opera sulla base di codici e di garanzie, sottraendo il colpevole alla rappresaglia dei familiari della vittima, garantendone l’incolumità e l’integrità, ricorrendo a pene certe e non disumane, previste da norme valide per tutti. I sistemi giuridici più avanzati hanno escluso l’esecuzione capitale dal repertorio delle pene, per tante ragioni; e perché la possibilità dell’errore renderebbe irreversibile una simile sanzione ingiusta. Quanto fin qui detto dovrebbe costituire quella mediazione culturale, destinata a impedire il ricorso a giudizi sbrigativi, condanne sommarie, caccia alle streghe. Nei fatti, le cose vanno diversamente.
Come si è detto, quanto più il delitto è efferato tanto più sembra esigere una risposta per lo meno altrettanto efferata: e rapida e definitiva. E così, nelle ore immediatamente successive all’attentato di Brindisi si sono registrate due reazioni parallele. La prima: la volontà di vendetta, l’invocazione della pena di morte e, infine, l’idea, suggestiva e insinuante, che “per uno così, il processo è inutile”. Non stupisce. La suprema ingiustizia – quella della violenza contro corpi bambini e adolescenti – esige un’azione altrettanto terribile per essere sanata. E qui si colloca la seconda reazione: l’individuazione del colpevole a ogni costo e la ricerca del capro espiatorio. Anche in questo caso, siamo in presenza di un eterno ritorno e di un’antica tentazione.
Ciò, nel caso della strage di Brindisi, ha assunto i contorni fin grotteschi dello stereotipo più logoro: testimoni che si volevano oculari, sedicenti vicini di casa, aspiranti criminologi hanno tracciato la fisionomia di un identikit tanto prevedibile da sembrare inventato di sana pianta. Come appunto era. Da giornali e televisioni, è stato descritto nei dettagli il ritratto di un ipotetico colpevole, che oscillava tra due figure: per un verso, quella di un comune cittadino i cui dati caratteriali diventavano immediatamente sospetti (“parla poco coi vicini”: ovvero “è un asociale”) e quella, per altro verso, di una copia sputata di Freddy Krueger, il protagonista della serie Nightmare. Qui i tratti salienti dell’identikit sono quelli che, da un secolo e mezzo, qualificano la fisiognomica del “mostro”, compresa la zoppia di cui si è detto. Il protagonista incolpevole di tale processo di stigmatizzazione, ora scagionato da ogni sospetto, dichiara: Ma non lo si poteva evitare? Ed evitare gli sguardi malevoli, le insinuazioni infamanti, il pubblico ludibrio, i tentativi di aggressione? Chi ha, più che assecondato, incentivato tutto questo?
Penso che, per una volta, le responsabilità del sistema mediatico siano meno rilevanti di quelle della magistratura inquirente. Non a caso, dietro le piste indicate e poi smentite, i presunti colpevoli e le ipotesi più fantasiose, le indagini “in tutte le direzioni” e “il lavoro investigativo a pieno ritmo”, si indovina – o meglio: esplode fragorosamente – un aspro conflitto tra le varie componenti della magistratura. Tutto ciò è di una gravità inaudita: la concorrenza tra Procura e Direzione Distrettuale Antimafia, il protagonismo di questo o quel magistrato, le “relazioni pericolose” con gli organi di informazione non solo nuocciono gravemente alle indagini, ma finiscono con l’alimentare quel clima malato nel quale ha vissuto Brindisi in questi giorni. A soffrirne è, in primo luogo, la giustizia.
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