Scrivere di un libro non letto può senz’altro considerarsi una operazione scorretta. Nondimeno, talvolta e provvisoriamente, quando l’uscita di un’opera suscita pronte reazioni e vivaci polemiche, o contribuisce a illuminare qualche tendenza in atto, arrischiarsi a parlarne può risultare utile.
Confessato il peccato, dunque, relata refero. Il libro in questione, cinquecento pagine pubblicate qualche settimana fa in Germania dalla prestigiosa casa editrice Suhrkamp si intitola Die schrecklichen Kinder der Neuzeit, ossia gli orridi (o terrificanti) figli della Modernità. Ne è autore Peter Sloterdijk, filosofo-scrittore assai noto, non nuovo ad aspre polemiche e accese controversie, poco amato dall’accademia. Affetto da una buona dose di narcisismo il personaggio non nasconde l’ambizione di conseguire un certo seguito popolare, e sovente lo consegue.
Le bordate, soprattutto da sinistra, non si sono fatte attendere. Pesantissima la recensione di Georg Diez su Der Spiegel, che definisce il libro «mangime per una borghesia imbarbarita», un’opera ultrareazionaria che gronda risentimento e nutre nostalgia per le gerarchie che hanno governato la società prima della Rivoluzione francese e della frattura (lo «iato») che essa ha determinato nella storia dell’umanità. Dunque una critica complessiva e senza sconti, dei diritti, delle forme e delle categorie politiche su cui poggia la Modernità, secondo la quale – così scrive Diez — «il grande crimine dell’Europa e della sua discendenza culturale americana, sarebbe stato quello di inventare l’individuo, l’uomo libero, per poi togliere ogni vincolo a questo “mostro”, come lo bolla Sloterdijk, destinato a recare al mondo milioni di morti e indicibile disgrazia».
Le bordate, soprattutto da sinistra, non si sono fatte attendere. Pesantissima la recensione di Georg Diez su Der Spiegel, che definisce il libro «mangime per una borghesia imbarbarita», un’opera ultrareazionaria che gronda risentimento e nutre nostalgia per le gerarchie che hanno governato la società prima della Rivoluzione francese e della frattura (lo «iato») che essa ha determinato nella storia dell’umanità. Dunque una critica complessiva e senza sconti, dei diritti, delle forme e delle categorie politiche su cui poggia la Modernità, secondo la quale – così scrive Diez — «il grande crimine dell’Europa e della sua discendenza culturale americana, sarebbe stato quello di inventare l’individuo, l’uomo libero, per poi togliere ogni vincolo a questo “mostro”, come lo bolla Sloterdijk, destinato a recare al mondo milioni di morti e indicibile disgrazia».
ILLUMINISMO ALLA SBARRA
L’autore si collocherebbe così comodamente in quella tradizione reazionaria del pensiero tedesco che imputa all’illuminismo, non l’eterogenesi di una nuova efficiente e spietata versione del dominio sotto il segno del capitale (come metteva in guardia la teoria critica), ma l’aver minato la stabilità di un Ordine che garantiva l’equilibrio del mondo e la trasmissione, senza rotture, dei suoi valori e delle sue gerarchie. Sono posizioni classiche del pensiero conservatore, ma non è indifferente, come vedremo, il tempo e il contesto nei quali vengono riproposte. SullaTageszeitung, Rudolf Walther imputa al testo una serie infinita di contraddizioni interne, una recitazione in stile guru e l’aver spacciato per grande affresco storico-teologico un discutibile collage di episodi, aneddoti, dicerie e leggende.C’è però una formulazione che tutti i recensori, senza eccezione, riprendono in posizione centrale, considerandola in qualche modo il cuore dell’argomentazione di Sloterdijk: «nel processo mondiale, dopo lo iato (la rottura rivoluzionaria della tradizione), vengono costantemente liberate più energie di quante possano essere racchiuse nelle forme di una civilizzazione trasmissibile». La Modernità è dunque informe, slegata dal passato e dunque sempre sul punto di precipitare verso un futuro privo di ogni senso. Senza la trasmissione controllata di quella tradizione che dai padri ai figli garantirebbe la continuità del mondo civile non resterebbe che un arbitrio votato al caos. Ma non si tratta di un problema di katechon, del «trattenimento» e dell’indirizzo di energie prorompenti, né di etica della responsabilità o di governo del cambiamento. Si tratterebbe invece di restituire legittimità all’antico regime, alle sue genealogie, alle sue gerarchie inamovibili. L’uscita illuminista dallo «stato di minorità» si configurerebbe, nella visione di Sloterdijk, come lo strappo destinato a inaugurare una condizione di perenne esilio. Il mancato rispetto del padre, dei suoi insegnamenti e delle sue «disposizioni testamentarie» si rispecchia nella perdita di quella patria, e dunque di quella appartenenza a un sistema consolidato di valori, di cui non saremmo più degni.
DOPO IL DILUVIO
Del resto, se la Rivoluzione francese e i movimenti di emancipazione che ne sono seguiti hanno fatto il grosso del lavoro, ci aveva già pensato Gesù di Nazareth – ricorda Sloterdijk – a sobillare i figli contro i padri spargendo il seme di quella discordia di cui noi saremmo gli «utilizzatori finali». Tuttavia l’autorità della Chiesa e della corona è riuscita per secoli, a dire il vero con mezzi tutt’altro che umanitari, a tenere ciascuno al proprio posto. Finché, a un certo punto, Madame de Pompadour, la potente amante di Luigi XV, che l’autore colloca in una posizione d’onore nel suo apocalittico affresco, avverte tutti, secondo il celebre aneddoto, che «dopo di noi il diluvio»: si sente nell’aria che i privilegi di un mondo immobile volgono definitivamente al tramonto. Magnificazione del passato, demonizzazione del futuro.
Volendo descrivere il disagio della modernità e la vacuità del processo di accumulazione che la caratterizza, tenendosi però al riparo da ogni nostalgia reazionaria, si sarebbero dovuti scegliere piuttosto i versi amari di uno dei suoi più «terribili figli», Berthold Brecht: «Sappiamo di essere effimeri/ E dopo di noi verrà/ Nulla degno di nota». Ma non è questo lo scopo di Sloterdijk intento a salvaguardare la «strategia genealogica» e quella superiore qualità morale dei migliori che, come ha spiegato in un recente pamphlet, esentati dalla pressione fiscale dello stato, elargirebbero spontaneamente e di buon grado in cambio del «prestigio» e della «gratitudine sociale» (La mano che prende e la mano che da, Raffaello Cortina). Fatto sta che il diluvio è arrivato senza che nessuno potesse impedirgli di irrigare i campi, nonché di travolgerli con devastanti inondazioni.
Un romanzo, uscito in Germania una decina di anni fa, descrive, nello svolgersi di una trama fitta e appassionante, un tentativo politico perfettamente in linea con le posizioni di Sloterdijk. E il suo fiasco. Mi accingo a compiere la seconda scorrettezza rivelandone il finale a sorpresa. Il libro di Wolfram Fleischhauer si intitola nella edizione italiana (Longanesi) Il libro che cambiò il mondo, ma la traduzione più corretta del titolo originale sarebbe stata Il libro in cui sparì il mondo. Nella Germania del 1780 un medico è alle prese con misteriosi omicidi che seguono uno schema epidemico, mentre ripetutamente le carrozze postali vengono assalite e date alle fiamme senza apparente ragione. Questi eventi sembrano privi di senso e di disegno. Ma, alla fine, in quel di Koenigsberg, si svela la chiave del mistero. Una setta di antesignani del nostro Sloterdijk cerca di impedire con ogni mezzo che il manoscritto della Critica della ragion pura pervenga all’editore, nonché di metterne a tacere l’incauto autore. Come non capirli? Come non vedere il terrore indotto da un simile turbamento dell’Ordine immutabile? Da una così radicale demolizione delle certezze e dei fondamenti? Dallo sprigionamento di forze incontrollabili? Qualcuno pretende addirittura di far scomparire il mondo reale! E i difensori della sua stabilità cercano, ieri come oggi, di impedirglielo.
Dal 1780 ad oggi molte cose «degne di nota» sono accadute. Compreso lo «iato» che avrebbe condotto al «disastro della Modernità». L’impresa di Sloterdijk dovrebbe allora apparire ancora più ardua, eroica e controcorrente, perfino disperata. Ma le cose non stanno affatto così. La crisi di questi ultimi anni ha alimentato grandemente il filone della critica reazionaria della contemporaneità. Il patriottismo gode di ottima salute (chiedetelo pure a Le Pen e Farage) e la diffidenza nei confronti della democrazia, in termini di apatia e disincanto, o nei termini del suo depotenziamento a favore di un governo senza impedimenti, ha ormai investito pienamente le società avanzate. Tanto che dell’accoppiata di libertà ed esilio, stigmatizzata da Sloterdijk, converebbe farne una nostra bandiera. L’idea di un ordine immutabile, tanto solido da contenere ed esaurire ogni dinamica di cambiamento, è tornata ad affermarsi decisamente dopo il 1989 (che forse potremmo considerare un altro «iato»). La «fine della storia» e il «non ci sono alternative» si impongono con altrettanta indiscutibile e universale autorità del «diritto divino». Il capitalismo di inizio millennio, a dispetto di crisi e oscillazioni, si pretende più eterno e convincente del sistema tolemaico. Ed è davvero singolare prendersela con le idee di libertà ed eguaglianza nel tempo in cui sono state ridotte a poco più di un orpello retorico o un pretesto. Quanto alla genealogia, alla trasmissione del potere e delle sue forme, (la questione stucchevole e fuorviante dei padri e dei figli infesta il dibattito politico anche dalle nostre parti) non è dato vedere che cosa le minacci. La riorganizzazione in senso oligarchico delle società avanzate ha ripristinato la piramide sociale in tutta la sua granitica inviolabilità. Le regole ci sono e i contorni della «civilizzazione ammissibile» sono tracciati con una nettezza che non prevede deroghe. Risalire alle spalle delle norme per vagliarne l’equità è severamente proibito.
Volendo descrivere il disagio della modernità e la vacuità del processo di accumulazione che la caratterizza, tenendosi però al riparo da ogni nostalgia reazionaria, si sarebbero dovuti scegliere piuttosto i versi amari di uno dei suoi più «terribili figli», Berthold Brecht: «Sappiamo di essere effimeri/ E dopo di noi verrà/ Nulla degno di nota». Ma non è questo lo scopo di Sloterdijk intento a salvaguardare la «strategia genealogica» e quella superiore qualità morale dei migliori che, come ha spiegato in un recente pamphlet, esentati dalla pressione fiscale dello stato, elargirebbero spontaneamente e di buon grado in cambio del «prestigio» e della «gratitudine sociale» (La mano che prende e la mano che da, Raffaello Cortina). Fatto sta che il diluvio è arrivato senza che nessuno potesse impedirgli di irrigare i campi, nonché di travolgerli con devastanti inondazioni.
Un romanzo, uscito in Germania una decina di anni fa, descrive, nello svolgersi di una trama fitta e appassionante, un tentativo politico perfettamente in linea con le posizioni di Sloterdijk. E il suo fiasco. Mi accingo a compiere la seconda scorrettezza rivelandone il finale a sorpresa. Il libro di Wolfram Fleischhauer si intitola nella edizione italiana (Longanesi) Il libro che cambiò il mondo, ma la traduzione più corretta del titolo originale sarebbe stata Il libro in cui sparì il mondo. Nella Germania del 1780 un medico è alle prese con misteriosi omicidi che seguono uno schema epidemico, mentre ripetutamente le carrozze postali vengono assalite e date alle fiamme senza apparente ragione. Questi eventi sembrano privi di senso e di disegno. Ma, alla fine, in quel di Koenigsberg, si svela la chiave del mistero. Una setta di antesignani del nostro Sloterdijk cerca di impedire con ogni mezzo che il manoscritto della Critica della ragion pura pervenga all’editore, nonché di metterne a tacere l’incauto autore. Come non capirli? Come non vedere il terrore indotto da un simile turbamento dell’Ordine immutabile? Da una così radicale demolizione delle certezze e dei fondamenti? Dallo sprigionamento di forze incontrollabili? Qualcuno pretende addirittura di far scomparire il mondo reale! E i difensori della sua stabilità cercano, ieri come oggi, di impedirglielo.
Dal 1780 ad oggi molte cose «degne di nota» sono accadute. Compreso lo «iato» che avrebbe condotto al «disastro della Modernità». L’impresa di Sloterdijk dovrebbe allora apparire ancora più ardua, eroica e controcorrente, perfino disperata. Ma le cose non stanno affatto così. La crisi di questi ultimi anni ha alimentato grandemente il filone della critica reazionaria della contemporaneità. Il patriottismo gode di ottima salute (chiedetelo pure a Le Pen e Farage) e la diffidenza nei confronti della democrazia, in termini di apatia e disincanto, o nei termini del suo depotenziamento a favore di un governo senza impedimenti, ha ormai investito pienamente le società avanzate. Tanto che dell’accoppiata di libertà ed esilio, stigmatizzata da Sloterdijk, converebbe farne una nostra bandiera. L’idea di un ordine immutabile, tanto solido da contenere ed esaurire ogni dinamica di cambiamento, è tornata ad affermarsi decisamente dopo il 1989 (che forse potremmo considerare un altro «iato»). La «fine della storia» e il «non ci sono alternative» si impongono con altrettanta indiscutibile e universale autorità del «diritto divino». Il capitalismo di inizio millennio, a dispetto di crisi e oscillazioni, si pretende più eterno e convincente del sistema tolemaico. Ed è davvero singolare prendersela con le idee di libertà ed eguaglianza nel tempo in cui sono state ridotte a poco più di un orpello retorico o un pretesto. Quanto alla genealogia, alla trasmissione del potere e delle sue forme, (la questione stucchevole e fuorviante dei padri e dei figli infesta il dibattito politico anche dalle nostre parti) non è dato vedere che cosa le minacci. La riorganizzazione in senso oligarchico delle società avanzate ha ripristinato la piramide sociale in tutta la sua granitica inviolabilità. Le regole ci sono e i contorni della «civilizzazione ammissibile» sono tracciati con una nettezza che non prevede deroghe. Risalire alle spalle delle norme per vagliarne l’equità è severamente proibito.
SOVRANITÀ DELLA BUONA FINANZA
The Wolf of Wall street, il barocco film di Martin Scorsese ci ricorda che anche la pirateria anarchica, nei suoi eccessi e nelle sue deroghe grottesche dai più riconosciuti principi di «civiltà», non può che essere una breve parentesi, una razzia disperata in corsa con il tempo. Poi, il sistema di «valori» e di potere della finanza sovrana torna a ristabilire la sua «legge» e il suo Ordine. I padri in doppiopetto tirano le orecchie ai figli discoli. La stabilità del mondo, il principio di autorità e la sua trasmissione si affermano indisturbati, nonostante le lamentazioni e le nostalgie dei conservatori incapaci di riconoscerne il volto contemporaneo, nell’improbo sforzo di separare le «qualità morali» dell’antico regime dalla sua intrinseca ferocia.
Ma in fondo tutto era già scritto da sempre. Parecchi secoli prima della predicazione sovversiva di Gesù, stando al giovane Nietzsche della Nascita della tragedia, ci aveva già pensato Euripide a minare le forme apolinee della civiltà portando il pubblico, il demos, sulla scena. La civiltà, insomma, muore prima ancora di cominciare e tanto varrebbe lasciar perdere. L’autorità patriarcale ovviamente sopravvive anche nelle forme tecnicizzate e transgender del capitalismo finanziarizzato e i figli, cioè i governati, restano a testa bassa anche quando capita che a qualche rampollo più brillante sia consentito di dimenarsi sul proscenio. La crisi e il suo governo ci ricordano ogni giorno che non viviamo in un carnevale scapestrato, ma in una permanente quaresima attentamente sorvegliata dal clero e dal credo del liberismo. Non penso si tratti della «secolarizzazione del peccato originale» di cui scrive Sloterdijk, ma di un noto prodotto della «civiltà»: il dominio di classe. L’antico regime e il suo potere di corrompere sono ancora qui.
Ma in fondo tutto era già scritto da sempre. Parecchi secoli prima della predicazione sovversiva di Gesù, stando al giovane Nietzsche della Nascita della tragedia, ci aveva già pensato Euripide a minare le forme apolinee della civiltà portando il pubblico, il demos, sulla scena. La civiltà, insomma, muore prima ancora di cominciare e tanto varrebbe lasciar perdere. L’autorità patriarcale ovviamente sopravvive anche nelle forme tecnicizzate e transgender del capitalismo finanziarizzato e i figli, cioè i governati, restano a testa bassa anche quando capita che a qualche rampollo più brillante sia consentito di dimenarsi sul proscenio. La crisi e il suo governo ci ricordano ogni giorno che non viviamo in un carnevale scapestrato, ma in una permanente quaresima attentamente sorvegliata dal clero e dal credo del liberismo. Non penso si tratti della «secolarizzazione del peccato originale» di cui scrive Sloterdijk, ma di un noto prodotto della «civiltà»: il dominio di classe. L’antico regime e il suo potere di corrompere sono ancora qui.
Nessun commento:
Posta un commento