Quando si parla di biopolitica, soprattutto in Italia, il richiamo obbligato è al filosofo francese Michel Foucault, che introdusse questo concetto per definire i conflitti causati dalla tendenza del potere, in epoca moderna, a controllare e regolare l’esistenza delle persone in quanto esseri viventi, attraverso misure profilattiche, sanitarie, demografiche, fino agli orrori dell’eugenetica nazista. Diversi autori di spicco, da Giorgio Agamben a Roberto Esposito, da Toni Negri a Felice Cimatti, s’ispirano oggi a questo lascito foucaultiano.
Esiste però una visione alternativa della biopolitica, proposta dal filosofo del linguaggio Antonino Pennisi, sulla scorta di una vasta letteratura anglosassone, nel saggio L’errore di Platone (il Mulino). Malgrado il titolo, il grande pensatore greco non è al centro della trattazione: il suo sbaglio sarebbe consistito nell’affidare alla volontà umana la missione impossibile di plasmare la convivenza politica sulla base di progetti intellettualistici. Invece Pennisi dice alla «Lettura» di ritenere «che per difendere l’umanità occorra guardare più ai limiti che alle possibilità della nostra specie». Il contrario di quanto è successo nel Novecento, «un secolo presuntuoso, antropocentrico, che non ha voluto riconoscere i vincoli biologici dell’uomo e lo ha giudicato onnipotente, solo perché dotato di linguaggio e coscienza», fino a produrre «i più efferati delitti contro l’umanità».
Insomma, mentre la scuola foucaultiana rivendica il diritto soggettivo alla pienezza della vita, denunciando le costrizioni imposte dal potere, oggi in particolare attraverso le scelte economiche dettate dalla finanza globale, la biopolitica nella versione di Pennisi «parte dalla consapevolezza dei vincoli naturali entro cui può muoversi la progettazione politica». A suo avviso, ogni disegno riformatore deve fondarsi «su quelle che sin dalle origini sono state le due principali molle dell’evoluzione sociale: i processi riproduttivi e quelli migratori. L’Homo sapiens è comparso 200 mila anni fa in una piccola regione dell’Africa centro-meridionale e si è espanso riproducendosi ed emigrando dappertutto. Tale attività non è mai cessata e ha modellato il mondo. Anche oggi i successi delle politiche nazionali derivano soprattutto dalla capacità di dare risposte concrete per gestire i diritti civili relativi alla riproduzione, quindi alle nuove forme di famiglia e alle migrazioni internazionali, con leggi che garantiscano lo spostamento e l’insediamento civile di coloro che lasciano le proprie terre d’origine».
Non c’è da stupirsi che la ricetta di Pennisi per combattere la crisi parta dal «nesso tra crescita economica e aumento della popolazione», nel quale individua, forse con un eccesso di determinismo, «l’unica bussola reale della navigazione biopolitica ». Gli appare ozioso che ci si accapigli su «come redistribuire le ricchezze con piccoli provvedimenti che spostano una coperta stretta da un lato o dall’altro delle classi sociali». E liquida come «un piccolo fattarello di cronaca che la Germania abbia ancora una buona tenuta economica e l’Italia no», poiché i due Paesi sono affetti da fenomeni analoghi di denatalità e invecchiamento della popolazione. La vera urgenza, afferma Pennisi, è «mantenere in equilibrio le diverse generazioni produttive rispetto a tutte le altre». Perciò è indispensabile «investire in popolazione giovane e in immigrazione», per «immettere energie fresche nel sistema sociale» e innescare così uno sviluppo durevole.
Porte aperte ai lavoratori stranieri, dunque. E anche ai diritti dei gay. Pennisi non reputa affatto casuale la concomitanza tra la crisi economica e l’approvazione di numerose leggi, in molti Paesi del mondo, per il riconoscimento delle coppie omosessuali. Collega tale fenomeno all’emancipazione civile e lavorativa delle giovani donne «che non fanno più, o fanno pochissimi, figli». Il combinato disposto, osserva, «è destinato a creare una depressione demografica ancor più grave». Un meccanismo che «non è arrestabile perché è il naturale risultato di quelle che gli specialisti chiamano transizioni demografiche, uguali nell’evoluzione di tutti i tempi e di tutte le nazioni». Una volta legittimata appieno la «sessualità non riproduttiva», conclude Pennisi, bisognerà prendere atto che al declino della natalità «c’è un solo rimedio naturale: lo spostamento di grandi masse di migranti che potranno redistribuire le giovinezze mancanti».
Detto così sembra un po’ troppo semplice. Date le tensioni socio-culturali provocate dall’immigrazione, viene da obiettare che converrebbe comunque fare qualcosa per aiutare gli autoctoni a mettere al mondo una prole più numerosa. Ma secondo Pennisi «l’ingegneria della fecondazione artificiale o quella del sostegno sociale alle madri che lavorano» sono soltanto «piccoli palliativi». A suo parere la retorica antimmigrati, assurda sotto il profilo biopolitico, è un frutto avvelenato della dote che distingue maggiormente la nostra specie, il linguaggio.
Anche altri animali (api, cervi, babbuini, uccelli migratori), nota Pennisi, «prendono decisioni che passano per l’elaborazione di un consenso collettivo», ma lo fanno «con segnali univoci», mirando sempre «a trovare la soluzione ecologicamente conveniente all’intera comunità e non al bene di un suo membro o di una sua parte». Noi uomini comunichiamo in modo assai più complesso e abbiamo un’acuta coscienza dell’individualità. Qualità eccezionali, che si rivelano tuttavia armi a doppio taglio, perché ci portano a creare «universi di discorso, dispositivi riccamente articolati per la produzione di teorie, sistemi, credenze», spesso finalizzati a «favorire logge, corporazioni, partiti, se non singoli individui». Il risultato è che i parlamenti si perdono in chiacchiere e «non servono ad assumere decisioni utili per tutti».
Tra le ideologie prese di mira da Pennisi non c’è però soltanto il populismo xenofobo antimmigrati. Ammiratore del liberalismo settecentesco, che «inaugurò la grande stagione della circolazione sociale dei beni e delle idee», boccia senza appello i fautori della decrescita. La retromarcia dell’economia non gli appare affatto auspicabile: «In Italia — s’indigna — stiamo già morendo di decrescita, eppure c’è chi vuole propinarla persino all’esercito dei disoccupati, guadagnandoci pure sulle disgrazie altrui. Ma la diminuzione dei consumi è sempre fonte di enormi tragedie collettive».
Twitter @A_Carioti
Twitter @A_Carioti
Nessun commento:
Posta un commento