martedì 26 luglio 2016

TERRORISMO VIOLENZA SOCIALE SUICIDI OMICIDI DI MASSA PSICHIATRIA E RAGIONI SOCIALI. M. G. GIANNICHEDDA, La psichiatria non vede le relazioni sociali, IL MANIFESTO, 26 luglio 2016

Sono storie molto diverse questa del giovane suicida che domenica ad Ansbach cercava la strage e quella di Ali Sonboly, suicida anche lui, che a Monaco è riuscito a realizzarla. Il primo, Mohammed Deleel, è un profugo siriano, e il fatto che giusto sabato un altro profugo siriano abbia commesso, sempre in Germania, un delitto di tutt’altra natura – l’uccisione di una donna che lo respingeva – ha subito spostato il discorso sui rischi dell’accoglienza e sul pericolo islamico.


Sono temi questi assai più drammatici ma in fondo meno inquietanti di quelli evocati dalla strage fatta dallo studente tedesco-iraniano, integrato e problematico come tanti ma con un abisso dentro, su cui nulla ha potuto il trattamento psichiatrico che il ragazzo seguiva da tempo.
Questa di Sonboly è una storia americana ( anche se si è ispirato, pare, alla strage compiuta da Tim Kretfchner a Winnenden, vicino a Stoccarda, nel 2009), del tutto simile a quella di Adam Lanza, che nel 2012 uccide in una scuola elementare del Connecticut venti bambini, sette adulti e sua madre; a quella di Cho Seung Hui, autore suicida della strage al Virginia Polythecnic Institute nel 2007, a quelle di Eric Harris e Dylan Klebold, che hanno fatto il massacro di Columbine nel 1999. Tutti studenti, apparentemente integrati, in trattamento psichiatrico con farmaci e colloqui, con accesso troppo facile alle armi nei casi americani, il che ha indotto a tematizzare di quelle vicende solo questo aspetto, sottovalutando l’importanza delle domande che sollevano sulla psichiatria e sui suoi giudizi e rimedi. Sono domande che oggi invece vanno riprese anche perché hanno a che fare con il nesso fra terrorismo e follia su cui ci si sta interrogando in questi giorni.
La prima cosa da dire è che il caso Sonboly e gli altri non vanno rubricati come insuccessi degli psichiatri che non hanno evitato, previsto, impedito i delitti dei loro pazienti. Il fatto è che gli psichiatri non possono prevedere ciò che accadrà come i «precog» di “Minority Report”, il racconto di Philip K. Dick. Sarebbe quindi corretto che la psichiatria finalmente abbandonasse le pretese in questo senso, che producono danni soprattutto sulle persone socialmente più deboli (gli internamenti reiterati in ospedale psichiatrico giudiziario nascono da previsioni di pericolosità sociale).
La psichiatria sbaglia non perché non prevede ma perché non vede, perché non sa guardare oltre il perimetro della malattia come essa stessa lo ha definito, sbaglia perché non guarda alle persone, alle esistenze, alle relazioni sociali prima e al di là dei codici in cui le inquadra. Codici che sono diventati pericolosamente diffusi e apparentemente banali: dico sono depressa, non sono triste.
Alì Sonboly dice, in quello straordinario colloquio con l’uomo che venerdì sera si beveva una birra al balcone, sono «vittima di bullismo», e se questa è la traduzione corretta delle parole del ragazzo, significa che nessuno gli ha mai insegnato a dare il nome all’oppressione che viveva – e che non è «bullismo» ma prepotenza dei forti o supposti tali – né gli ha insegnato a combatterla quest’oppressione per non essere vittima, anche quando eventualmente perdente.
Sia chiaro: il discorso sulle persone, le esistenze e le relazioni sociali è discorso politico, è politica. Non si può chiedere alla psichiatria di sostituirsi alla politica, ma non si può accettare che la psichiatria (usando per comodità questo concetto ma il discorso vale per tutto il comparto dei saperi psico – sociali ) contribuisca a occultare, mistificare, cancellare la dimensione politica della vita. Durante le lotte per la liberazione dal manicomio è stato fondamentale, per gli internati non meno che per quelli di noi a vario titolo impegnati nell’impresa, scoprire la dimensione politica di ciò che accadeva e trovare le parole per denominarla. Il femminismo ha fatto la stessa operazione. Tutto ciò non abolisce il dolore, le difficoltà, le ingiustizie, l’oppressione, e anche la follia se ti è accaduta in sorte.
Ma ti aiuta a prendere in mano la tua vita, a riconoscere amici e nemici, le persone complici e quelle da tenere a distanza.
Sono anche storie simili quella di Sonboly e quella del giovane siriano che cercava la strage. Anche lui era stato psichiatrizzato, due tentati suicidi, diversi ricoveri in ospedale psichiatrico. Del ragazzo afghano o pachistano che una settimana fa, sempre in Germania, si è avventato armato di ascia sui passeggeri di un treno finendo ucciso dalla polizia, non si sa di trascorsi psichiatrici ma non si può evitare la sensazione che fosse posticcio il suo grido «allah è grande» e che in realtà fosse una disperazione senza rimedio a guidare il suo gesto.
In queste giornate da incubo in cui c’è chi ha visto i segni della psicopatologia anche nel terrorista di Nizza, riconoscere i segni della follia non deve significare la morte della dimensione politica dell’esistenza, né la fine della politica e della possibilità di trasformare il mondo.

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