Di fronte a tanta violenza, orrore e terrore, si esita a esprimere opinioni supposte razionali. Mi verrebbe però la voglia di proporre una piccola ( o grande, non so) battaglia linguistica, pacifica ma determinata, contro l’uso del termine radicalizzati per definire la condizione degli uomini che agiscono violenza in nome di ideologie assurde e mostruose, o perché preda di stati mentali «disturbati». Sono infatti molto affezionato alle parole radice e radicale, non solo perchè ogni tanto – anzi ogni spesso – mi trovo d’accordo con proposte e opinioni dei radicali italiani ( in queste ore, per esempio, sul l’idea di eliminare il proibizionismo per la cannabis ) ma perché sin da ragazzo, anche leggendo certi passi del giovane Marx, mi sono convinto che una buona politica non può che essere fondata su ciò che per uomini e donne corrisponde a una radice appunto. E la radice più vera per ogni uomo «è l’uomo stesso». O la donna, naturalmente, anche se questa differenza si tende a rimuoverla.
Andare alla radice della propria umanità può anche portare a una totale negazione della vita stessa, propria e altrui. Ma questo è un esito che giustamente viene definito negativo e nichilistico. Direi che si tratta del fallimento del proprio radicalizzarsi . Diciamo piuttosto, allora, che quel tale che si è messo a sparare in un centro commerciale e a investire con un camion una folla in festa, si è nichilistizzato. Cercava se stesso, ma anzichè trovare la propria umanità, in relazione con quella degli altri, ha trovato un orribile vuoto, oppure dei riempitivi tragicamente fasulli. Un dio omicida, che so, oppure l’appartenenza a astrazioni comunitarie altrettanto farlocche. Ma proprio nessuna radice che, come avviene in natura, ci consenta di vivere, crescere, stare nel mondo. Con la più fondata e necessariamente complessa – radicale – coscienza di sè.
Certo questa ricerca è difficile, a volte dolorosa, lunga. Quindi è ancora più insopportabile leggere che il tizio di cui sopra si è velocemente radicalizzato. Poco prima era una specie di debosciato, dedito all’alcol e alle belle ragazze, magari a pagamento, picchiava la moglie, poi ha trovato improvvisamente le proprie radici e si è messo a sparare come un pazzo. Ma no.
Leggiamo molte analisi, molti commenti, sul nesso emergente tra terrorismo come azione politica collettiva, per quanto aberrante, e stati di confusione mentale diciamo così personali. Il confine ci appare sempre più sottile, e credo che questo ci indichi una qualche verità. Mi hanno colpito sui principali quotidiani le pagine appaiate l’una sul caso del diciottenne tedesco di Monaco, terrorista suicida a modo suo, e sul femminicidio perpetrato a colpi di machete da un siriano a Stoccarda. Vittorio Zucconi, sottolineando domenica su Repubblica le analogie tra queste violenze e altre simili reazioni di giovanissimi – magari a loro volta vittime di bullismo – in America, ha osservato, tra parentesi, che si tratta “sempre di un maschio”.
Con altri amici ho aderito a una proposta di rendere sempre più forte e evidente una presa di coscienza e una reazione maschile alla violenza agita contro le donne (chi fosse interessato può aprire la pagina facebook Primadellaviolenza). Una delle cose su cui bisognerebbe riflettere è se la violenza contro le donne non sia alla radice di molte altre forme di aggressione che insanguinano il nostro modo di vivere, per lo più declinate al maschile. Chissà che, vincendo quella, non si ottengano effetti collaterali positivi. Oltre la «malattia incurabile» dell’essere maschi di cui ha parlato Edoardo Albinati.
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