Sorpresa e delusione. Il decreto legge approvato nel primo Consiglio dei ministri presieduto da Giorgia Meloni ha contraddetto, in materia di giustizia, tutte le attese per una svolta antigiustizialista, che si erano manifestate a seguito della scelta di Nordio come Guardasigilli. Ma c’è davvero da essere sorpresi? Uscendo dal Quirinale, dopo il giuramento, Carlo Nordio ha, tra le altre cose, affermato essere una priorità la “attuazione del codice Vassalli, un codice firmato da una medaglia d’argento della Resistenza”.
È la frase meno commentata, ma, forse, è quella più significativa del programma di riforma, che ha in mente il nuovo ministro della Giustizia. Per comprenderne appieno la portata è opportuno cercare di capire, innanzitutto, quanto grande sia stata la torsione subita nella prassi dal Codice Vassalli e, soprattutto, quale sia il ruolo della magistratura nel pensiero di Carlo Nordio. È necessario muovere da un dato di fatto. Vassalli, uno dei Maestri del diritto penale italiano e, al tempo stesso, uno dei più grandi avvocati dell’epoca, fu colui che, come componente del governo Craxi a quel tempo in carica, depotenziò gli effetti del referendum sulla responsabilità civile dei magistrati, che si svolse alla fine degli anni 80 con esito positivo.
Più testimoni hanno riferito che Craxi aveva un rispetto reverenziale verso Vassalli e che, per questo motivo, non ebbe la forza di contrastare la formulazione di quelle norme, tuttora vigenti, che hanno, di fatto, sterilizzato l’esito del referendum. Non si può, dunque, ritenere che Vassalli abbia mai avuto un atteggiamento punitivo nei confronti dell’Ordine giudiziario. A sua volta, il nuovo codice di procedura penale, varato anch’esso alla fine degli anni 80 e che è appunto noto anche come codice Vassalli, non aveva e non voleva avere alcun effetto erosivo sul ruolo e sull’indipendenza dei magistrati, sia di quelli giudicanti e sia di quelli appartenenti all’ufficio del pubblico ministero. Esso, anzi, si muoveva nella prospettiva di una maggiore e piena valorizzazione del ruolo degli uni e degli altri.
Da un lato, il ruolo del pubblico ministero era enormemente esaltato dalla circostanza che tutto l’apparato investigativo veniva posto alle sue dirette dipendenze. Una delle critiche più severe, che si faceva al sistema precedente, era che, essendo le indagini svolte da apparati subordinati all’Autorità amministrativa, le stesse potevano essere facilmente “addomesticate” con la conseguenza che ne restava vanificato il principio di indipendenza dell’Ordine giudiziario. L’inevitabile gigantismo della figura del pm avrebbe dovuto essere compensata, nel disegno del codice, dalla pari dignità della difesa in dibattimento, a partire dalla raccolta delle prove, e soprattutto da una posizione nettamente terza della figura del giudice, a partire dal giudice preposto al controllo delle indagini e all’udienza preliminare. Il dibattimento, a sua volta, avrebbe dovuto essere riservato a un numero limitato di casi da approfondire, e un ruolo decisivo per la decongestione avrebbe dovuto assumere il patteggiamento, al quale non era originariamente attribuita natura di condanna.
L’attacco al nuovo codice fu immediato, mediante la pubblicazione di alcune intercettazioni di mafiosi, secondo i quali il nuovo processo, con le garanzie processuali previste, avrebbe impedito qualsiasi condanna. Poi è seguita la stagione di Mani Pulite, e a furor di popolino debitamente aizzato e di intellettuali e politici che, per poter raggiungere il potere, non hanno esitato a rinnegare qualsiasi principio, quel codice, garantista e liberale, ha subito una imprevedibile torsione in senso illiberale e giustizialista. Così è avvenuto che il gigantismo del pubblico ministero non ha avuto alcun reale contrappeso, specie sui temi della libertà personale e di quello, non meno delicato, dei sequestri; la Corte di cassazione è giunta a dire che è vero che la carcerazione preventiva non doveva servire a estorcere la confessione, ma se interveniva la confessione era giustificato concedere la libertà; la Corte costituzionale ha ritenuto legittimo che una condanna potesse intervenire a seguito di una dichiarazione accusatoria, resa in carcere da un detenuto ai danni di un terzo al fine di poter ottenere la libertà, senza che l’accusatore fosse poi neppure contro esaminato da parte del difensore del terzo imputato; prima la prassi amministrativa e poi il legislatore hanno pienamente equiparato il patteggiamento a una sentenza di condanna, facendo così perdere al primo qualsiasi appeal soprattutto nei casi dubbi.
In questa prospettiva si comprende, allora, che la frase di Carlo Nordio, sulla necessità di dare attuazione al codice Vassalli, assume il significato di un manifesto di politica giudiziaria di una ampiezza e di una profondità di cui va colta fino in fondo la dimensione.
Nella stessa prospettiva, il ricordo della figura di Vassalli, come medaglia di argento della Resistenza, non è un mero sfoggio di cultura storica, ma ha un preciso significato politico. È servito a ricordare che figlio dei valori della Resistenza doveva essere considerato l’originario equilibrio del nuovo codice di procedura penale e non il frutto di quella oscena controriforma, che ha trasformato troppo spesso gli strumenti del processo penale in illiberali strumenti di oppressione. Ma quale è, e qui sta il punto, il ruolo della magistratura, nel pensiero di Carlo Nordio, in quell’equilibrio?
Come si legge nella quarta di copertina del libro Giustizia Ultimo Atto. Da Tangentopoli al crollo della magistratura la sintesi del suo pensiero è la seguente: «A trent’anni da Tangentopoli, siamo ben lontani dal progetto di ripristinare la legalità nelle istituzioni. I rimedi messi in atto coi processi di Mani Pulite si sono rivelati peggiori del male che dovevano curare: la corruzione non è diminuita, come dimostra il caso del Mose, anzi ha aumentato i suoi introiti. Ma l’effetto collaterale più pernicioso è stato portare la magistratura al controllo dei partiti e alla tutela del Paese, fino al punto di sovvertire il responso delle urne e modificare gli equilibri parlamentari. Un’investitura permessa dalla subordinazione codarda della politica, che ha voluto assegnare alle toghe un ruolo salvifico e dirimente. In questo modo alla divisione dei poteri, invocata dalla Costituzione, è subentrata invece la loro confusione pressoché totale. Quindici anni fa l’ottanta per cento degli italiani confidava ancora nei magistrati. Oggi, dopo gli ultimi scandali emersi nella Procura di Milano, le faide tra le correnti interne e gli innumerevoli episodi di protagonismo dei Pm, …. la percentuale è crollata».
Il punto centrale del suo pensiero non sta, dunque, nella preoccupazione per le garanzie dell’imputato, ma nella preoccupazione per il crollo di credibilità della magistratura. Alla quale è assegnato un ruolo sacrale. Che non è quello di un magistrato super potente a dispetto delle regole, quale si è delineato a seguito di Mani Pulite, ma quello di un magistrato rispettoso delle regole di un processo nel quale il giudice sia realmente terzo e non vassallo della pubblica accusa. Il garantismo costituisce allora, nella prospettiva di Nordio, prima ancora che l’espressione dell’esigenza che siano rispettate le regole a tutela dell’imputato, la precondizione affinché possa realizzarsi in pieno la neutralità del ruolo del giudice e, perciò, la sacralità del ruolo sia di quest’ultimo e sia dell’accusa.
È, questa, una concezione del processo, che può benissimo andare a braccetto con una visione disumana e disumanizzante della pena, quale è quella sottesa alla disciplina dell’ergastolo ostativo. Anzi, proprio una visione sacrale e non laica del ruolo del giudice e dell’accusa può costituire la base ideologica di un diritto penale sostanzialmente illiberale. Né queste considerazioni sono contraddette dalla preoccupazione, che lo stesso Nordio ha espresso, sulla condizione delle carceri, trattandosi di una preoccupazione che ben può coesistere con una concezione illiberale del diritto penale. Resta, tuttavia, una riflessione. Carlo Nordio è persona, come emerge da molti suoi articoli, che ha una ricca cultura umanistica. Il rispetto per la dignità delle persone dovrebbe, perciò, essere profondamente radicato nel suo animo e, se così è, non potrà permettergli di continuare ad essere, anche in futuro, corresponsabile di una legislazione rozzamente giustizialista.
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