Per volontà del ministro Di Maio il decreto legge che il governo sta emanando in questi giorni, mirato ad arginare la diffusione dei contratti a termine e più in generale la «precarizzazione del lavoro», sarà chiamatoDecreto dignità. Dietro la scelta di questa parola sta un’idea che merita qualche riflessione: quella secondo cui la dignità del lavoro dipende dalla sua stabilità. La sicurezza economica e professionale di ogni persona che lavora è un bene molto importante, che ogni nazione deve proteggere efficacemente. La dignità del lavoro e di chi lo svolge, però, non c’entra: non dipende affatto dal grado di sicurezza che gli è garantita. Anzi, per certi aspetti l’eccesso di protezione della stabilità del «posto» talvolta favorisce una perdita di dignità del lavoro.
Consideriamo due casi estremi, nei quali la stabilità è, rispettivamente, massima e minima. Il primo è quello degli impiegati nel settore pubblico. Qui un regime di stabilità pressoché assoluta, di vera e propria job property, consente tipicamente a una parte consistente degli addetti di prendersela comoda, di anteporre sistematicamente il proprio interesse a quello degli utenti; e talvolta addirittura, con l’assenteismo abusivo, di addossare il proprio carico di lavoro sull’altra parte degli addetti, cioè su quelli che hanno davvero il senso della dignità del proprio lavoro e tirano, come si suol dire, la carretta per tutti. È proprio all’ombra di questo regime di iperprotezione che — anche ma non solo per colpa dei dirigenti — matura una cultura del lavoro deteriore. Il caso opposto è quello della persona che lavora nella piccola impresa, nello studio professionale, nella bottega artigiana, godendo di una protezione minima contro l’eventualità di un licenziamento. L’affidamento di questa persona sulla continuità del lavoro e del reddito si fonda sulla qualità professionale della prestazione e sulla soddisfazione del cliente. Qui il tasso di assenze è un quarto, un quinto o persino un decimo rispetto a quello che si registra nel settore pubblico. Qui, soprattutto, l’interesse dell’utente è sempre al primo posto: non perché i diritti del lavoro siano conculcati, ma perché è proprio sulla soddisfazione dell’utente che chi lavora fonda la propria sicurezza.
In quale delle due situazioni descritte noi vediamo più «dignità» del lavoro? Se ne vediamo molta di più nella seconda che nella prima, non è forse il caso di mettere radicalmente in discussione l’idea che la dignità dipenda dal grado di inamovibilità di chi lavora, o addirittura coincida con il regime di job property? La sicurezza economica e professionale di chi lavora — giova ripeterlo — è un bene di grande importanza sociale. I contratti a termine, pur essendo soggetti alle stesse identiche protezioni previste per quelli a tempo indeterminato, proprio per il fatto di essere a termine offrono minore sicurezza. I lavoratori a termine, in Italia, sono circa il 15 per cento, in crescita costante nell’ultimo decennio, è vero, ma ancora perfettamente in media con il resto dell’Unione Europea. Ciò non toglie che, se c’è un modo per trasformare davvero una parte di questi contratti a termine in contratti stabili (certo non col tornare a gonfiare in modo abnorme il contenzioso giudiziale, che fa star bene solo gli avvocati), è sacrosanto sperimentarlo. Ma non presentiamolo come un modo per promuovere la dignità del lavoro; perché questo equivale a dire che quel lavoratore su sette che è assunto a termine lavora in condizioni non dignitose.
Se ci sono strumenti per facilitare l’accesso al lavoro stabile dei giovani, proteggendoli dagli abusi anche gravi a cui sono esposti da parte di imprese scorrette, attiviamoli. Ma smettiamo di accreditare l’idea che nel settore privato il lavoro sia tanto più dignitoso quanto più il regime della sua stabilità si avvicina a quello della job property (l’articolo 18, per intenderci); perché questo equivale a dire che i 350 milioni di lavoratori dipendenti europei d’oltralpe, tutti privi di articolo 18, lavorano in condizioni non dignitose. È evidentemente una sciocchezza. Lo sanno bene i nostri molti ragazzi che migrano in Gran Bretagna, in Olanda, in Germania: non vanno in quei Paesi a cercare un lavoro protetto dall’articolo 18, che certo non troverebbero, ma a cercare un lavoro nel quale le loro competenze vengono valorizzate, e un mercato nel quale perdere il posto non è una tragedia, perché si è sostenuti e assistiti robustamente nella transizione a una nuova occupazione. Fanno affidamento sulla propria mobilità in un mercato del lavoro continentale, non certo su promesse, sempre ingannevoli, di inamovibilità.
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