giovedì 12 luglio 2018

REPORTAGE. LA SINISTRA E LE PERIFERIE ROMANE. G. CUPERLO, Viaggio a Tor Bella Monaca, un mondo che la sinistra ha smesso di guardare, L'ESPRESSO, 12 luglio 2018

Se sei la sinistra e ti votano solo al Vomero o ai Parioli una domanda devi fartela, ma se non trovi una risposta ti resta solo l’evocazione delle periferie. Dove “bisogna tornare”, non ci piove. Il punto è a dire cosa. Perché poi non basta dire “periferie”, mica sono tutte uguali. Conta il punto di vista. Da dove le pigli. Per dire, se dopo la sconfitta peggiore uno avesse voluto capire dove si era persa la metà esatta dei voti di Veltroni o un terzo di quelli di Bersani poteva scegliere due vie. 

Naufragare nelle tabelle di Ilvo Diamanti e nei flussi del Cattaneo (il cielo li preservi entrambi). Oppure mettersi in viaggio e prestare orecchio, e occhio, a cose meno scontate di come le si immagina. A partire da un’idea, che tutta la periferia sia Gomorra doppiata in dialetti strani. Fosse così, sarebbe più semplice almeno la comprensione. Invece no, tutto è più complicato, meno lineare. E il bello - perché il bello c’è - sta lì, nella ricchezza di facce e storie e angoli dove trovare un’altra bussola per capire da che parte oggi sta la frontiera.



Anche per questo ho cercato lei. Nella, ventisette anni e una quasi laurea in giurisprudenza. L’avevo incrociata in un servizio alla tivù. La intervistavano assieme a Pina, compagna storica che all’ultima assemblea del Pd esasperata dai riti di corrente ha sbattuto la delega sulla presidenza. Pina giorni dopo l’ho ritrovata a Santi Apostoli dove si manifestava in sostegno a Mattarella e lì mi ha fatto incrociare Nella che fa parte della segretaria Pd nel VI municipio, periferia est della capitale.



Nella e Martina nella sezione Pd di...
Nella e Martina nella sezione Pd di Tor Bella Monaca

Tor Bella Monaca è il suo circolo. Un anno fa si è messa in testa di rilanciarlo e per farlo ha ingegnato un paio di attività. Giusto per dare senso, e vita, a trenta metri quadri. Ci sono andato un pomeriggio feriale. In Vespa, a mano lo smartphone perché senza TomTom a Via dell’Archeologia non ci arrivavo. È uno stradone senz’anima, sia detto con rispetto. A lato destro edilizia popolare anni Ottanta, progettazione delle giunte di sinistra. Otto, nove piani, al posto dei gerani le solite parabole. Sul lato di fronte stessa cornice. Una fuga di saracinesche calate. C’era una piccola bisca ma l’hanno chiusa. E più giù un baretto, chiuso anche quello forse perché si spacciava. Il circolo è incastonato al centro. Lo hanno ridipinto e ritagliato un angolo bar. Il venerdì si organizzano piccoli concerti, c’è un laboratorio di fotografia (finora è l’iniziativa di più successo, dieci iscritti).

Poi ci sono Francesca e Ylenia, laureate a Tor Vergata. Loro ci vanno un paio d’ore a settimana per uno sportello di assistenza legale. Oddio, finora vanno e aspettano che qualcuno si decida a entrare, ma prima o dopo capiterà. Al muro qualche centinaio di libri rastrellati qua e là. Li stanno catalogando. Il circolo avrà una biblioteca fai da te. Com’è quella storia del ripartire dal basso? Usciamo dal saloncino e più o meno ho l’impressione che si faccia così.

Nella mi spiega quello che dovrei sapere. Che Tor Bella Monaca è anche altro. Parecchio altro. Così in tre minuti siamo al parcheggio del teatro. Si chiama solo Teatro Tor Bella Monaca. Direttore artistico è Alessandro Benvenuti. Quello organizzativo si chiama Filippo d’Alessio. Quando ci vado io non c’è, ma ne parlano come di un animatore instancabile.


Filippo D'Alessio, direttore...
Filippo D'Alessio, direttore organizzativo del teatro

Invece c’è Maddalena. Pure lei fa tutto e di tutto. In pratica vive lì. È regista, operatrice culturale, attrice, dirige laboratori. Entriamo in platea, è un bel colpo d’occhio. Sono 284 poltroncine (questo lo leggo dalla scheda). Sull’altro lato una sala più piccola dove sbarcano compagnie d’avanguardia e si proiettano film. Sotto, uno spazio enorme (che non ho visto). Rimesso a posto servirà a gestire le prove. Il cartellone è ricco, il prezzo fisso e il teatro spesso pieno. Nella sala maggiore vedo una cinquantina di ragazze e ragazzi. Sono del liceo Edoardo Amaldi che sta là vicino (è uno scientifico, classico, linguistico assemblati). Provano un adattamento del Riccardo III, quello dell’inverno del nostro scontento. Chiedo a Maddalena il perché della scelta. Mi spiega che hanno fatto un lavoro prezioso, ragazzi e insegnanti assieme. Detta male, il tema sarebbe per quali vie la bruttezza può sedurre. Bruttezza vuol dire anche lo spacciatore, il bullo che attrae chi tutto sommato lo vede come un modo per campare. Mi fa capire che qualcuno di quelli sul palco sa che vuol dire. Ci hanno tessuto sopra alcuni mesi e due sere dopo lo metteranno in scena. Nell’atrio, di fianco alla biglietteria ci sono locandina, nomi, foto. Esci e cominci a capire che se dici solo “periferia” non è che non hai detto tutto. È che rischi di non capire niente.

Cinque minuti e siamo al Villaggio Breda. Villaggio nel senso di case a due o tre piani che all’origine ospitavano gli operai trasferiti laggiù. Siamo nel ’38 e l’Istituto Fascista Autonomo Case Popolari accompagna così l’apertura della fabbrica di armi - Società Italiana Ernesto Breda per Costruzioni Meccaniche - al tempo in via di sdoppiamento dalla Flaminia. Lo stabilimento comincia a produrre l’anno dopo, nel ’39. Mussolini inaugura la prima pietra del villaggio e le famiglie ci vanno a stare nel ’41, a tragedia in corso. Nel dopoguerra la fabbrica chiude ma il villaggio resta, nel suo razionalismo minimalista e col suo carico di storia e dramma. Adesso ci trovi un centro anziani. Curato nel verde. Prato rasato che al confronto lo spartitraffico a Corso Trieste è una giungla. Ci viene incontro Egidio, il presidente. Qua vanno forte le carte, ma hanno anche il campo di bocce. La pista esterna dove si fa musica nelle feste è stata coperta da poco. Nella palazzina ci sono due o tre stanze, una piccola biblioteca (è la seconda che incrocio in un’ora) e un salone con specchio a muro per i corsi di ballo.

Chiacchieriamo qualche minuto, tema Fornero. Alle pareti le foto dei momenti clou col passaggio di nostri due sindaci, Veltroni e Rutelli. Cerco l’immagine di Petroselli, ma forse quando c’era lui il centro non esisteva ancora. Egidio mi racconta le attività per il quartiere, la festa dei ragazzini con le torte e i dolci portati da casa. Fanno comunità anche in forma di servizio? Sì, ma in fondo è qualcosa di più. Non fanno comunità. Quella è comunità. Insomma, c’è differenza.

La tappa dopo è La Rosmarina , una Onlus fondata nel 2005 da dieci donne. Quel giorno è chiusa però ci apre Marinella e per mezz’ora ci travolge di parole e passione. L’idea all’inizio era una casa famiglia per donne vittime di violenza. Qui trovo altre foto appese. Sono momenti belli, il compleanno di un paio dei bambini salvati, figli di mamme troppo giovani o troppo sole per farcela senza un aiuto. Adesso l’associazione fa cose diverse, molte, una infinità. C’è il banco alimentare, pacchi e pacchi di pasta, pelati, biscotti, litri di Coca Cola. Servirebbero verdure e prodotti freschi ma non è facile. Da anni a Natale organizzano un evento con le scuole. Ogni bambino porta una cosa da casa e una ne riceve. Scambio, dono, imparano dal gesto, e del resto insegnamento migliore non c’è. Tutto trasuda buonismo? Per chi legge, forse. Se lo vedi, se ci vai, trasuda umanità e una molla incontenibile a far qualcosa per chi magari non se lo aspetta o ha rinunciato ad avere fiducia in quell’altra istituzione antica che chiamavano “il prossimo”. Usciti anche da lì passiamo in mezzo a viuzze più ospitali allo sguardo. Nella mi dice che è Torre Gaia, la chiamano il Parioli di Tor Bella Monaca a conferma che anche le periferie sanno essere come o’ scarrafone, e il bello, che c’è, basta vederlo.


I manifesti della lega studentesca di...
I manifesti della lega studentesca di destra

L’ultima tappa sa ancora di volumi. Si chiama Booklet Le Torri, è la prima libreria aperta nel quartiere. L’ha voluta Alessandra. Lei è una imprenditrice ma il progetto - questo progetto - non è solo scommessa commerciale. Ci ha creduto e investito quanto nessuno forse avrebbe arrischiato. Il locale è grande, luminoso, su strada. Mi racconta di averlo cercato parecchio, però alla fine crede sia quello giusto. E per il poco che conta, appena entrato, lo penso anch’io. Libri a parete, dei banconi al centro muniti di rotelle (quando arriviamo noi, per il vero ce n’è solo uno ma il locale è aperto da meno di due settimane). Di lì a due giorni si inaugura anche la presentazione dei libri. Per primo verrà Giovanni Floris a parlare di scuola (saprò dopo, telefonando, che è stato un successo). Alessandra ne parla come della creatura attesa. Ha subito qualche piccola angheria di benvenuto, ma non pare la preoccupi. Ci crede come devi crederci se scegli di portare un pezzo di cultura dove di quella merce c’è un bisogno pazzesco. Mi dice Nella che se togli il teatro il cinema più vicino sta a Roma Est, duecentodieci negozi e una multisala. Ma sono una ventina di chilometri, devi proprio sceglierla come meta della domenica o dello sballo del sabato.


Alessandra Laterza
Alessandra Laterza

E allora uno mette in fila quelle tre ore, la Vespa e il TomTom, i palazzoni grigi dove una volta noi prendevamo un voto su due e oggi tifano Salvini, il Riccardo III dove non lo avevi mai pensato, e gli anziani al villaggio Breda, e i pacchi di pasta alla Rosmarina e la libreria più utile che potevi scovare, metti in fila un po’ di queste cose e del titolo - periferie - ti resta poco, quasi nulla. Molto di più ti rimane di quello che noi avremmo dovuto capire o anche solo ascoltare. Perché imboccando il raccordo e scansando le buche questo viene da pensare. Che non serve dire “torniamo nelle periferie”, perché il bisogno non è quello di farci vedere lì. Il bisogno è l’altro. Che la sinistra torni a vedere un mondo che, nonostante noi, ha continuato a vivere. E che oggi non conosciamo più. La morale? Non sono loro ad avere bisogno di noi. Siamo noi a dover imparare quello che abbiamo scordato.

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