Dalle liste elettorali impresentabili al voto di scambio in Sicilia è tutto un pullulare di mercimonio e corruzione. Niente di nuovo si dirà, ripensando al Mose e all’Expo, alla telenovela infinita delle tangenti e delle carriere spianate a figli e amanti con tanto di rolex e di viaggi all’estero a spese della collettività. Vero.
Del resto si parla sempre della politica come se altrove tutto fosse in ordine. Non lo è. Basterebbe guardare con attenzione al mondo universitario – per dirne una – per capire che anche la famosa «società civile» gronda corruzione, con i suoi bravi corollari di protervia, illegalità, clientelismo.
Ma ora, a complicare il quadro, scoppia questo megascandalo transnazionale della Fifa. Si scopre un sistema ventennale di favoritismi e taglieggiamenti che, stando agli inquirenti, ha fruttato ai vertici dell’organizzazione qualcosa come 150 milioni di dollari.
Per corrotto che sia, il nostro paese non è dunque un’eccezione. La corruzione dilaga, fa sistema. Si ha l’impressione che rappresenti, dietro le quinte, la vera logica nella riproduzione dei poteri e nell’assunzione delle decisioni. Ma se è così, che cosa se ne deve dedurre? Che questa è, paradossalmente, la regola? Che deprecare è, oltre che vano, insulso?
Così a prima vista parrebbe. Tanto più che, in tema di corruzione, si usa fare un ragionamento per lo meno ambiguo. La corruzione, si dice, è, come altre patologie sociali (come l’evasione fiscale, per esempio), inestirpabile. Di recente Raffaele Cantone ha parlato di «limiti fisiologici» della corruzione, per dire appunto che sarebbe utopistico immaginare di eliminarla totalmente.
Il guaio di un discorso del genere è che rischia di confondere le idee, non chiarendo che la fisiologia di cui si tratta attiene alla soglia di tollerabilità sistemica (dice quanta corruzione una società può sopportare senza implodere), non al giudizio morale.
Non ci sono fenomeni corruttivi sani come non c’è un’evasione fiscale buona, anche se è vero che, al di sotto di un dato livello quantitativo, né gli uni né l’altra mettono a repentaglio la tenuta finanziaria o morale della società.
La corruzione è sempre patologica. Lo è per una ragione che raramente capita di vedere esplicitata. Il punto è anche economico: la corruzione ostacola il benessere collettivo perché interferisce nella distribuzione delle risorse, determina l’aumento del costo delle opere pubbliche, inibisce gli investimenti, riduce la produttività sistemica.
La corruzione distrugge il principio di uguaglianza
Ma l’aspetto essenziale concerne la relazione sociale, nel senso che la corruzione viola diritti fondamentali e distrugge il principio di uguaglianza. Chi corrompe e chi si lascia corrompere determina per sé – proprio come chi opera dentro filiere mafiose o sotto la copertura di logge segrete – condizioni di vantaggio che discriminano quanti rimangono esclusi dal patto corruttivo.
L’essenza della corruzione è quindi la violenza: l’istituzione di privilegi e la negazione degli altrui diritti alla pari dignità e alla partecipazione egualitaria alla dinamica sociale. Il che significa che una società in cui la corruzione è diffusa e radicata è una società violenta, nella quale la prevaricazione è divenuta o rischia di divenire costume, forma etica.
Limiti fisiologici o meno, al cospetto della corruzione ci si dovrebbe quindi sempre indignare e si dovrebbe reagire con determinazione, esigendone la più decisa repressione. Resta però vero che il dato quantitativo può fare la differenza sul terreno delle conseguenze sociali (materiali e morali) dei fenomeni corruttivi. E allora la domanda che ci si deve porre di fronte alle notizie di queste ore è semplice: che cosa è successo e quando, perché nelle nostre società la corruzione divenisse, appunto, normalità, ethos, sistema?
Qui la risposta chiama in causa inevitabilmente la questione morale. Certo ci sono anche problemi istituzionali: la qualità dei sistemi di controllo sui comportamenti e sui conflitti d’interesse; il grado di difficoltà delle leggi e di opacità delle procedure e quello di discrezionalità dei decisori. Ma, al dunque, l’integrità dei cittadini, dei pubblici ufficiali e delle forze politiche rimane il fattore-chiave. Al riguardo, quel che si può dire è che nel corso di questi 25–30 anni, di pari passo con il radicarsi dell’individualismo socialdarwinistico neo-liberale, è davvero avvenuta una sorta di mutazione etico-antropologica.
Tutto oggi è merce e la ricchezza e il potere sono tutto. Anche per chi è al termine della propria vita, quasi che potere e denaro potessero esorcizzare la morte. È una regressione profonda e generale, che non risparmia certo i più giovani, nati e cresciuti in questo clima etico. E che espone la società a un tasso elevato di violenza distruttiva. Come ben sapeva Adam Smith, il capitalismo senza puritanesimo dissolve le società. Non crea gli alveari contenti di Mandeville: scatena le guerre fratricide di Hobbes.
È difficile dire in che misura oggi la corruzione abbia superato i limiti fisiologici e se il sistema imploderà. Certo, per stare al nostro paese, non siamo messi bene per niente. Quanto la corruzione ci costi rimane un mistero (quei famosi 60 miliardi annui stimati dalla Corte dei conti essendo soltanto l’indice medio calcolato dieci anni fa da Daniel Kaufmann), mentre è un fatto che siamo il paese più corrotto in ambito Ue, Ocse e tra i G20.
Allora è curioso quel che è accaduto in questa campagna elettorale a Matteo Renzi, il quale, per sostenere Vincenzo De Luca in Campania, non ha trovato di meglio che fare il verso al peggior Moro, quello del «non ci lasceremo processare». Ha detto, papale papale, che il Pd «non accetta lezioni di legalità da nessuno». Come dire: siamo impermeabili, sordi, refrattari. Complimenti, davvero un bel lapsus. È proprio vero che, quando cade l’ultimo residuo della vergogna, capita di dire anche l’indicibile.
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