Per qualcuno dei nostri nonni è stato considerato accettabile tagliare la testa a un nemico. E’ avvenuto che soldati italiani si producessero nello stesso macabro rituale della decapitazione a scopo propagandistico che oggi ci viene proposta via internet dai boia dell’Isis.
E’ la testimonianza sgradevole di un evento storico che ci riguarda, certamente non vuole rappresentare nessuna giustificazione per la barbarie delle decapitazioni trasformate in spot pubblicitari dagli uomini del Califfato e che oggi pullulano nei social media.
E’ a tutti noi chiaro che siano la prova di una ferocia arcaica e detestabile che non deve convivere con la civiltà che ci siamo faticosamente conquistati. E’ però giusto riflettere quanto nessuno di noi, e in nessun territorio, si debba sentire protetto da improvvisi ritorni alla ferocia. E’ bene ricordare che nel nostro patrimonio genetico sia latente ogni possibile efferatezza, questo serve sicuramente ad affermare con ancora più forza la nostra consapevolezza di essere umani civilizzati.
Le tre immagini in allegato sono state pubblicate solamente nel 1996 nel libro di Angelo Del Boca “I gas di Mussolini” (ed. Riuniti) sono del fotografo professionista che operava in A.O. Angelo Dolfo. La sequenza è del settembre 1937 e mostra tre fasi della decapitazione, e successiva esposizione, della testa mozzata del degiac (comandante) Hailù Chebbedè capo di una ribellione debellata da soldati italiani, impegnati in Etiopia nella costruzione dell’Impero, dopo un sanguinoso combattimento in cui era stata impiegato il gas velenoso iprite per snidare i partigiani che si erano nascosti nei boschi.
Dopo che Hailù fu passato per le armi si decise che la sua testa sarebbe dovuta essere esposta nella piazza del mercato di Quoram, come monito ai ribelli.
Del Boca nel suo libro riporta la testimonianza diretta del chirurgo militare Giuseppe Rotolo, a cui fu chiesto di staccare la testa del ribelle. Il medico si rifiutò, ma “l’operazione” fu comunque eseguita, da come si può vedere nella prima foto. Un graduato italiano inginocchiato sul corpo è intento a mettere la testa in una scatola vuota di biscotti (conteneva le “Marie” della Lazzaroni come specifica il testimone).
La seconda foto (che ho parzialmente oscurato) mostra la testa del degiac “ingabbiata” con un cappio di fil di ferro e sollevata da un nostro soldato. Nella terza foto la testa è stata issata su una sorta di forca per essere esposta al mercato. Ci rimarrà per molti giorni preda di uccelli.
Del Boca specifica che questo non fu un episodio isolato, ma di immagini simili se ne trovano a migliaia nella fototeca dell’ Istitute of Ethiopian Sudies di Addis Abeba., come in archivi privati. Testualmente racconta: “Spesso i carnefici italiani si fanno fotografare in posa davanti alle forche o reggendo per i capelli le teste mozzate dei patrioti etiopici. In alcune foto gli aguzzini inanlzano le teste recise su picche. In altrele fanno rotolare fuori da un cesto. In altre, ancora, le espongono in mostra su un telone, quasi fossero oggetto di baratto.(pg 176 op.cit)
Questo chiaramente non fa di noi un popolo di possibili tagliatori di teste, ma non possiamo non tenere conto che in molte delle nostre famiglie in qualche cassetto ci sono foto del genere. Le portavano a casa i reduci delle guerre d’Africa e restavano a sonnecchiare nei cassetti assieme a quelle di generazioni di nipotini in fasce, di sposalizi, di coniugi in posa. Io stesso ricordo di averne viste tra i cimeli di famiglia.
Erano per noi bambini solo dei nemici africani che erano stati impiccati dai nostri soldati, di cui forse aveva fatto parte anche un parente combattente. E’ duro e spietato ricordarlo, ma se vogliamo segnare la differenza tra noi e i nuovi barbari dobbiamo innanzitutto avere il coraggio di saper elaborare il nostro passato.
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