Ci si può fare una legge elettorale su misura? È proprio quel che sembra essere successo in Umbria dove il Pd, a meno di tre mesi dalle elezioni regionali del prossimo maggio (e ancora sotto lo shock della sconfitta a Perugia nelle comunali 2014), ha appena approvato una nuova legge che assegna il 60 per cento dei seggi alla lista vincente ma senza alcuna soglia minima di voti. E questo pur sapendo che, dopo la sentenza della Consulta del 2014 sulla legge elettorale nazionale, un premio di maggioranza che non preveda una soglia è probabilmente incostituzionale. Di sicuro politicamente indifendibile. Intanto vinciamo le elezioni e garantiamoci il seggio, si devono essere detti gli artefici della nuova legge, poi si vedrà.
Che ciascun consiglio regionale si faccia la sua legge elettorale è diventato possibile dopo che quindici anni fa una riforma costituzionale ha stabilito che spetta alle Regioni, sia pure entro principi generali stabiliti dallo Stato, scegliere la propria forma di governo e il proprio sistema elettorale. Con un risultato che assomiglia molto al vestito di Arlecchino. Una molteplicità di regole che, nella percezione del comune cittadino, è amplificata dal fatto che invece, a livello comunale, è in vigore da tempo e con piena soddisfazione di tutti un sistema a doppio turno. Se il diavolo, come si dice, ama nascondersi nei dettagli, questo è soprattutto vero per le materie elettorali. Le differenti leggi regionali prevedono premi di maggioranza senza soglia di accesso; ma questo era appunto consentito prima che un anno fa intervenisse la Consulta pronunciandosi sul Porcellum. Non a caso la Regione Toscana ha varato in settembre una nuova legge elettorale che saggiamente prevede la soglia minima del 40 per cento per accedere al premio e, se nessuna coalizione la raggiunge, il ballottaggio.
I consiglieri umbri non potevano copiare la legge toscana? Probabilmente lo hanno evitato perché oggi come oggi una coalizione raccolta attorno al Pd umbro avrebbe difficoltà a superare quella soglia, con il rischio di perdere poi all’eventuale ballottaggio. Perdere fa parte della democrazia. Ma questa possibilità è ancora difficile da metabolizzare in una regione in cui la sinistra è abituata a vincere sempre e non ha ancora assorbito il trauma della perdita del Comune di Perugia. Se, nell’Italia repubblicana, il lungo periodo dei governi democristiani è stato definito un «regime», non sarebbe improprio usare allora lo stesso termine per il caso umbro. Naturalmente in questo piccolo «regime» regionale, un po’ come avveniva nella prima Repubblica con il Pci, c’è posto anche per accordi di tipo consociativo con l’opposizione. Il centrodestra infatti, dopo essersi opposto alla nuova legge elettorale, l’ha poi approvata (attraverso il voto di alcuni suoi esponenti) ottenendo in cambio un trattamento da minoranza privilegiata in termini di seggi, nel caso probabile che perda alle regionali. Risparmio ai lettori i dettagli del meccanismo che colpisce le altre opposizioni; comunque, secondo una simulazione dei radicali, l’8-9 per cento potrebbe non essere sufficiente per avere almeno un consigliere.
L’Umbria è una regione che non raggiunge il milione di abitanti e dunque, si potrebbe dire, possiamo interessarci in proporzione (cioè poco) della sua legge elettorale. Sennonché il caso di questa norma su misura, aggiungendosi a vicende recenti come le primarie campane vinte da Vincenzo De Luca, segnala un fatto di rilievo, invece, nazionale. Segnala la difficoltà o l’incertezza del nuovo corso renziano, saldamente installatosi a Palazzo Chigi, a separarsi da vecchi potentati locali, soprattutto se e quando questi si sono proclamati renziani. Per questo se il governo — che ha 60 giorni di tempo per impugnare o meno la nuova legge umbra — scegliesse di non vederne l’incostituzionalità, non sarebbe un buon segno.
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