1. "L'uomo e la donna che ignorano che cosa sia il mondo, non sanno dove essi stessi si trovino" (M. Aurelio) - 2. “Quel grande | che temprando lo scettro a' regnatori | gli allòr ne sfronda, ed alle genti svela | di che lagrime grondi e di che sangue” (U. Foscolo)
sabato 20 aprile 2013
FILORENZIANI DI DESTRA. ANGELO PANEBIANCO, Perché non c'è un Renzi nel Pdl, IL CORRIERE DELLA SERA, 25 marzo 2013
È possibile che il complicato dopo voto produca un governo di tregua. Ma un governo di tregua per fare cosa? Per fare tre cose, si suppone. In primo luogo, tenere a galla la zattera con qualche provvedimento che assicuri un po' di affidabilità agli occhi dei partner europei e dei mercati. Ma basterà che, in qualsiasi momento, una Cipro qualunque inneschi una valanga e tutto sarà rimesso in discussione. In secondo luogo, fare una nuova legge elettorale. Ma si dà il caso che sia più facile dirlo che farlo. Come si capisce appena si pone la domanda: quale nuova legge elettorale? In terzo luogo, dare ai partiti il tempo necessario per modificare le proprie offerte politiche in modo da riagganciare l'elettorato che li ha abbandonati scegliendo la protesta.
Delle tre cose da fare l'ultima è forse la più complicata. Come prova il fatto che nell'anno e passa di tregua assicurato dal governo Monti non c'è stata traccia di seria ristrutturazione di quelle offerte politiche. E il risultato si è visto alle elezioni.
Ci sono buone ragioni per pensare che un cambiamento dell'offerta politica (che significa cambiamento di leadership , di assetti organizzativi e di programmi), urgente per tutti, lo sia in particolar modo per la destra. Perché essa resta comunque la componente più fragile del sistema. Perché ha perso molti più voti di quelli che ha perso il Pd. Perché il reingresso di Berlusconi sulla scena elettorale dopo il suo annunciato ritiro ha solo rinviato il momento della verità: il momento in cui il Pdl (o qualunque cosa lo sostituisca) dovrà cominciare a camminare con le proprie gambe, senza più il padre padrone a comandarlo. E perché, soprattutto, sarebbe vitale per il Paese che, una volta finita la tregua, una volta tornati alle elezioni, dalle urne uscisse quello che un tempo si sarebbe definito un solido governo borghese.
Al Pdl serve urgentemente un Renzi di destra, uno che non debba baciare l'anello a Berlusconi, uno che sappia parlare al Paese con un linguaggio fresco. E che, a differenza di Berlusconi, sia molto meno vulnerabile dal punto di vista giudiziario. Sia chiaro, un tale (ipotetico) Renzi di destra non dovrebbe affatto piacere alla sinistra: il processo di autoaffondamento politico di Gianfranco Fini cominciò quando, rotto con Berlusconi, egli diventò per un certo periodo l'eroe dei giornali di sinistra. Sinistra e destra sono ovunque separati da interessi contrapposti, da opposte visioni del mondo, da opposti codici morali. Nel nostro Paese, poi, gli elettorati di sinistra e di destra (basta ascoltarne le conversazioni) nutrono gli uni nei confronti degli altri più o meno gli stessi sentimenti che il Ku Klux Klan nutre nei confronti dei neri. È vero, come accennava ieri Galli della Loggia, che la sinistra ha avuto finora più successo nel convincere persino l'establishment che gli elettori di destra siano solo buzzurri impresentabili. Ma si conoscono anche tanti elettori di destra che pensano la stessa cosa di quelli di sinistra.
Il Renzi di destra dovrebbe fare, anche lui, orrore alla sinistra. Tanto più ci riuscirebbe quanto più coerentemente e aggressivamente (che non significa urlare: significa avere la solidità culturale necessaria per dare efficacia e un alto profilo alla propria proposta) fosse capace di rappresentare idee e interessi che hanno da sempre una precisa connotazione: l'individualismo come valore, la proprietà privata come diritto fondamentale, e fonte di libertà, anziché come colpa da espiare, l'idea che sia il «vil commercio», che siano i mercanti, e non i Savonarola, i costruttori di società decenti.
Il governo borghese che serve al Paese è un governo teso a rilanciare lo sviluppo capitalistico senza se e senza ma. Un governo che investa sulla crescita (altro che «decrescita felice»), che blocchi il processo di impoverimento nell'unico modo possibile: dando di nuovo alle classi medie indipendenti la voglia e l'incentivo per rischiare e investire. Voglia che non tornerà fin quando non ci saranno garanzie che i frutti del proprio lavoro non verranno in gran parte confiscati da uno Stato famelico. Il che significa tagliare le tasse, colpire la burocrazia, colpire i mercati protetti. Significa non commettere l'errore che commise Berlusconi il quale, per mantenersi al potere, venne a patti con le corporazioni che contribuiscono a strozzare la crescita.
Si è detto qualche volta che, non essendone capace la destra, in Italia tocca alla sinistra fare il lavoro della destra. Ma sono fole: la sinistra può fare solo la sinistra, ridistribuire il reddito in un regime di tasse alte. Se è la crescita ciò che si vuole, o la propizierà la destra o non lo farà nessuno.
Ma il punto debole di questo ragionamento non consiste forse nel fatto che del Renzi di destra qui ipotizzato non c'è, nella realtà, traccia alcuna? Sì e no. La destra, in Italia, esiste solo da venti anni. Ma in questo lasso di tempo è cresciuta una generazione di italiani che, spesso nel male ma qualche volta nel bene, non è più debitrice delle culture politiche dei grandi partiti, accomunati dal pregiudizio antiborghese, che dominarono la Prima Repubblica. Ci sono in giro diversi giovani colti, preparati, con esperienze di studio o di lavoro all'estero, e talvolta anche con un po' di palestra nella politica locale, che cercano un varco per farsi strada. La ristrutturazione dell'offerta della destra non potrà prescinderne
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