L'uno, 58 anni, ministro della Coesione territoriale - molto applaudito e lodato - del governo Monti, dichiaratamente «comunista» ha appena presentato il suo manifesto, "Un partito nuovo per un buon governo", in cui indica tra le tante vie la vitale rivoluzione del rapporto tra cittadini e Stato e il taglio del cordone ombelicale della "fratellanza siamese" tra Stato e i partiti Stato-centrici. Cinquantacinque pagine di esposizione appassionata e vibrante, più Thomas Hobbes che Karl Marx, originale e anche orgogliosa della sapienza riversata, da leggere - se non si è del ramo - con la Treccani a portata di mano, per stare proprio tranquilli.
L'altro, sindaco di Firenze di 38 anni, in cima ai sondaggi, a volte tacciato dai nemici persino di strisciante berlusconismo, ha presentato quest'inverno il suo programma. Titolo rumoroso: "Big Bang"; svolgimento parsimonioso: cento punti da una riga ciascuno. E' il filosofo della rottamazione, forma primordiale di grillismo e tesi da officina meccanica che l'ha portato sulla cresta dell'onda, assassina per i padri fondatori del Pd, e forse chissà, suicida per lui, già abbracciata a 17 anni nei primi passi di militanza dc e decisamente invisa a Barca che la considera «un atto di non responsabilità, un cambiamento che avviene per sostituzione, non per merito». Il peggiore dei demoni per il teorico della competenza, un cursus honorum fra la Banca d'Italia, la direzione di un dipartimento del ministero dell'Economia, la presidenza di un comitato Ocse: «Senza mutare le regole», ha precisato,«la rottamazione diventa gattopardismo».
Ora, a dire il vero, il sindaco - debutto da segretario provinciale Pd in Toscana per poi diventare presidente della Provincia di Firenze, lingua a dir poco affilata, temperamento positivo, non colpevolizzante, non punitivo - ha da poco virato. Ha sostituito il fatale slogan distruttivo con la parola "lavoro" («sarà meno sexy di "rottamazione"), ma incrocia la vita degli italiani». E si è concentrato su obiettivi più costruttivi: la presentazione di uno studio sul tema cruciale dell'occupazione, una nuova legge elettorale, un Parlamento meno costoso, un finanziamento dei partiti diverso e più trasparente, il risparmio dell'abolizione delle province. L'inno a «un'Italia leggera, non a un partito pesante».
Non proprio in sintonia con il pensiero sostitutivo e più austero di Barca che propone ben altro. Un partito di metodo, di sostanza e anche di recupero: gli unici nomi citati nel manifesto sono quelli di Enrico Berlinguer e di Raffaele Mattioli, primo banchiere di sistema. A volte i modelli di Renzi sono più complessi, nel senso di complessi musicali. Alcune biografie raccontano la reazione scandalizzata di Romano Prodi (con il quale c'è un flirt assai sfacciato) quando Renzi nel 2006 diede alle stampe "Tra De Gasperi e gli U2". «Mò, che c'entrano mai?», gli chiese allibito. E l'autore saccente: «Per un giovane è più formativo un testo di Bono che un saggio di De Gasperi». Pare che sulla replica del Professore fosse meglio glissare. Un mese fa, invece, il sindaco toscano ha rispolverato Barack Obama:«Si vince con la speranza non con il programma», ha enunciato per una volta visionario. Per fortuna è successo ben prima dell'elaborazione politica di Barca. Se no chissà che supposizioni maligne.
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DENISE PARDO,
Chi è Barca, l'anti Renzi, L'espresso, 8 aprile 2013
Anche se lui non ci ha pensato prima - e sarà pure strano, ma così dicono quelli che lo amano e lo seguono - ora la pulce gli sarà entrata nell'orecchio. La pulce è questa: il leader, lato democratico o lato quel che sarà la futura sinistra, non c'è (o è incerto). Ma c'è Fabrizio Barca che potrebbe essere il leader, ministro uscente per la Coesione territoriale.Alla trasmissione radio, non sobria, non tecnica ma molto popolare 'Un giorno da pecora', a domanda ha risposto pari pari: «Ho votato a sinistra del Pd». Alla festa della Repubblica al Quirinale, un anno fa, ha dichiarato che bisognava mandare i militari nelle zone del terremoto, non a sfilare alla parata del 2 giugno. «Io non vado. Porto mio padre che ha 91 anni al mare a mangiare uno spaghetto come si deve», ha detto. Ha fatto bene: Luciano, il papà - scrittore e partigiano, già parlamentare del Pci - è morto pochi mesi dopo, a novembre.
Quando, nel 1988 lasciata Banca d'Italia e chiamato da Carlo Azeglio Ciampi, Fabrizio Barca era a capo del Dipartimento delle Politiche di sviluppo al ministero del Tesoro, alfiere della Npr, la Nuova politica regionale, contratti d'area, patti territoriali telefonava personalmente ai giovani economisti per annunciare che erano stati scelti e davvero sulla base dei loro curriculum (non faceva lui la selezione). Uno di loro chiese: «Scusi, dottor Barca, ma prima non vuole vedermi in faccia?». «Dice che è il caso?», domandò Barca. «Beh, se io fossi lei, lo farei». Risposta: «Ha ragione, venga». Quattordici anni dopo, da neo ministro ha postato su Twitter, su cui è attivissimo, il bando per la selezione di personale per il suo staff.
Barca non è un elefante di partito. Non è un rottamatore, un unto del signore, un figlio di un dio minore e nemmeno una creatura del Web. E' uno che crede nella militanza nello Stato, nel valore della competenza. Oltre che nell'orgoglio di essere cresciuto con lo stile di vita dell'aristocrazia rossa e con la sensazione di avere un destino - importante - segnato. «E se fosse Barca l'uomo nuovo del Pd?», ha sibilato con aria insinuante Bruno Vespa al segretario Pd Pier Luigi Bersani. Il leader in pectore è stato generoso ma ha sviato: «Io Fabrizio lo stimo tantissimo, gli voglio anche bene, è persona seria». Un'ottima pagella. Certo non un endorsement.
Primo ministro della Coesione territoriale della storia della Repubblica, nato a Torino il giorno della festa della donna e nell'anno, il 1954, in cui ha visto la luce la Rai, Barca è un economista di fama internazionale, ex Fgci, un alto burocrate molto determinato dotato di un carisma ben allenato, il passo di un gran camminatore di montagna, uno fuori dalla politica in senso stretto ma che sostiene «si è politici sempre, anche in casa».
Laurea in Scienze Statistiche all'università di Roma, master in Philosophy in economia a Cambridge, sposato con Clarissa Botsford, padre di tre figli (due all'estero, in Sud America e in Inghilterra: «Se l'Italia non migliora stanno bene lì», ha proclamato sollevando un putiferio) direttore generale del ministero dell'Economia, presidente del Comitato delle politiche territoriali dell'Ocse, approda al governo di Mario Monti dopo aver superato come una salamandra il fuoco della convivenza con cinque ministri, a dir poco delle primedonne (oltre a Ciampi, Amato, Visco, Siniscalco e Padoa-Schioppa).
E soprattutto dopo aver stretto i denti nelle tre stagioni di Giulio Tremonti (in cui cresce invece Vittorio Grilli) che prima lo esilia in una stanzetta, poi ne fa una sorta di capo segreteria tecnica - per controllarlo meglio da vicino si diceva - senza affidargli nessun compito preciso, salvo chiedergli ogni tanto di reperire quattrini dei fondi strutturali inutilizzati, materia diventata per lui più che un abito su misura una seconda pelle. Al tempo del confino, lega molto con il siciliano Gianfranco Miccichè (feroce critico di Tremonti) che poi lo presenta a Berlusconi, subito dopo la nomina di Barca a direttore generale, nomina respinta per ben tre volte dal Consiglio dei ministri. Motivazione: alto comunismo. Di Barca Miccichè urla «E' bravissimo». Ma il rapporto non piacque all'ortodossia di ambedue le parti.
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