venerdì 26 aprile 2013

NUOVO GOVERNO E INCARICO A LETTA. LUCA RICOLFI, Il vantaggio del “velo d’ignoranza”, LA STAMPA, 26 aprile 2013


Non sappiamo se Enrico Letta riuscirà a formare un governo, né se il nuovo governo sarà messo in condizione di governare. Ma facciamo per una volta gli ottimisti, e immaginiamo che tutto vada per il meglio, e che il futuro governo non sia paralizzato dalle forze politiche che lo sostengono.


Che cosa sarebbe ragionevole aspettarsi dal nuovo governo?

Credo che la maggioranza degli italiani risponderebbe: che affronti l’emergenza economico-sociale, a partire dal dramma occupazionale. Dopo tutto, è per questo che ci stiamo negando il lusso di tornare immediatamente al voto.

Anch’io la vedo così, e non da oggi. E tuttavia penso che, in questo preciso momento, ci siano anche due altre priorità, non strettamente economiche ma vitali per il futuro dell’Italia. La prima è ovvia: il nuovo governo, se vuole partire con il piede giusto, deve abolire il finanziamento pubblico dei partiti, e deve farlo senza se e senza ma (o meglio, con un unico «ma»: la completa defiscalizzazione delle donazioni private). So benissimo che c’è anche un po’ di semplicismo e di demagogia in questa richiesta, ma ci sono anche due argomenti fortissimi a suo favore. Primo: l’abolizione del finanziamento pubblico è già stata decisa venti anni fa con un referendum popolare, dunque si tratta solo di rispettarne l’esito. Secondo: comunque sia, i partiti hanno dimostrato ampiamente di non saper usare in modo corretto il fiume di denaro che, aggirando il risultato referendario, si sono continuati ad autoattribuire per due decenni. Detto in altri termini: si possono nutrire le opinioni più diverse sulla giustezza del finanziamento pubblico considerato in astratto, ma arrivati a questo punto – dopo un referendum disatteso e venti anni di cattivo uso del denaro pubblico – non c’è più alcuna scelta.

C’è però anche un secondo tema che meriterebbe di essere affrontato subito, in parallelo rispetto ai temi economico-sociali: il cambiamento delle regole del gioco, a partire dalla legge elettorale. Questo tema non è solo importante in sé (perché le regole attuali non funzionano), è anche assolutamente urgente. E lo è per una ragione elementare: questo è il momento migliore per cambiare le regole, anzi è l’unico momento per farlo con qualche speranza di riuscita. Passato questo momento, potremmo non farcela più.

Perché?

Perché adesso, solo adesso e per poco tempo ancora, le forze politiche si trovano relativamente prossime a quella condizione ideale che, quasi mezzo secolo fa, nella sua «Teoria della giustizia», John Rawls descrisse con l’espressione «velo d’ignoranza». In che senso l’ignoranza può aiutare a prendere decisioni giuste? Nel senso che, per scegliere una regola in modo disinteressato, e quindi equo, è bene che tu non sappia in anticipo se, per la posizione che potrai trovarti ad occupare domani, quella regola ti avvantaggerà o ti danneggerà. Ignorare le convenienze future aiuta a fissare le regole del gioco nel modo più equo e bilanciato possibile, proprio perché ognuno tenderà a proteggersi dal rischio di un sistema di regole che, a posteriori, potrebbe risultare dannoso o catastrofico per lui stesso.

È questa, oggi, la situazione dei partiti. I partiti possono anche credere di sapere quali regole li avvantaggerebbero e quali no, e proprio per questo non riuscire a trovare un accordo fra loro (è precisamente quanto è successo durante il governo Monti). Ma, se non riescono a lasciar perdere i calcoli egoistici neppure oggi, non ci riusciranno mai. Perché oggi la possibilità di fare calcoli e previsioni è al minimo storico, probabilmente ancora più giù di quanto fosse scesa nel 1992-1994, durante le convulsioni della prima Repubblica. Oggi infatti, oltre a non sapere quando si voterà, nemmeno si sa quali forze politiche saranno in campo alle prossime elezioni. E non mi sto riferendo alle forze minori, che come in un caleidoscopio cambiano da elezione ad elezione, ma alle forze maggiori, ivi comprese quelle che siamo abituati a considerare punti fermi e stabili del panorama politico.

Ci sarà ancora il Pd alle prossime elezioni? O ci saranno due Pd, uno guidato da Renzi, l’altro guidato da Barca? O addirittura ce ne saranno tre, uno fatto dalla vecchia nomenklatura, l’altro diviso fra i «nuovi di sinistra» e i «nuovi di destra»?

Ci sarà ancora Berlusconi alla guida del Pdl? Che faranno Monti e Casini? Si decideranno a creare un secondo raggruppamento moderato, in concorrenza con quello berlusconiano, o persevereranno nel tentativo di fare l’ago della bilancia?

E Grillo? Che ne sarà del movimento di Grillo ora che la sua natura «di sinistra» (una strana sinistra, per la verità) è risultata evidente?

Le previsioni ragionevoli oscillano fra il 5 e il 55% dei voti. Se a Grillo riuscisse la cosiddetta OPA sul Pd (siete morti! i veri progressisti siamo noi!), il suo movimento potrebbe puntare al 30-35% dei voti, ovvero la quota che dal 1948 tocca alla sinistra in questo paese. Difficile, perché anche l’autolesionismo del Pd ha (forse) un limite, e prima di arrendersi D’Alema e compagni venderanno cara la pelle.

Se il governo Letta fallisse, e i partiti maggiori rimandassero in scena il mortificante spettacolo di questi anni, Grillo potrebbe anche puntare al 51%, naturalmente dopo essersi trasformato in un partito di governo, con un programma e una squadra credibili. Se invece il governo Letta dovesse avere successo, e il Pd trovasse il modo di restare sulla scena (magari con due partiti), al movimento di Grillo potrebbe toccare un destino non molto migliore di quello dell’Uomo Qualunque, una meteora improvvisamente apparsa nel cielo della politica italiana e poi inabissatasi per sempre.

Insomma, come direbbe il presidente Mao: «grande è la confusione sotto il cielo: la situazione è eccellente». No, la situazione non è eccellente in nessun campo, ma forse per cambiare le regole del gioco lo è davvero.

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