ito a memoria un’analisi politica di Altan, icastica e ricca di senso. In una vignetta, pubblicata a cavallo del secolo, il personaggio principale, cui il consueto modello grafico dona un plastico atteggiamento interrogativo, scruta l’orizzonte con un cannocchiale: «Vedo il nuovo che avanza» sembra gridare. Subito dopo, più sommessamente: «Non capisco bene, però, se avanza dalla parte della faccia o del culo». Da quale parte avanzasse era già evidente da tempo, ma ora è definitivamente acclarato.
Sugli esiti renziani di un percorso «nuovo» iniziato più di vent’anni fa, esiti «rivelazione», esiti come «autobiografia» degli elementi costitutivi di quel percorso, si è espresso su questo giornale (15 gennaio) Alberto Asor Rosa. La linea generale delle sue argomentazioni è, a mio parere, largamente condivisibile, in particolare perché permette riflessioni non schiacciate sull’immediatezza della cronaca politica. A proposito della cronaca politica Ilvio Diamanti (la Repubblica, 27 gennaio) si è espresso così: «È difficile raccontare la politica con le tradizionali categorie dell’analisi politica. (…) Raccontare la politica, oggi, significa, infatti, parlare delle Persone e dei Capi».
Credo sia opportuno chiedersi quale sia oggi il rapporto tra il racconto della politica e la comprensione degli itinerari molteplici che convergono nella realtà del momento attuale, compreso quello politico. Un serio studioso come Diamanti ha raccontato con sintetica intelligenza le caratteristiche del leader post-Pd, post-berlusconiano proprio in quanto interamente compenetrato dal berlusconismo (la Repubblica, 6 gennaio). Rarissimi brillanti giornalisti hanno tracciato un ritratto del vecchio-nuovo boss di particolare efficacia e verità. Solo che raccontare il momento non ci permette la comprensione del presente nei suoi percorsi di trasformazione e quindi la formulazione di un serio giudizio. Anzi, quello che ci trasmette il racconto è un senso di ineluttabilità. L’immagine che emerge dal racconto può non piacere, può addirittura risultare orribile, può contenere persino tracce di vecchio, ma nella sostanza è il nuovo, e l’opposizione al nuovo, magari nobile, è comunque il vecchio. E tale uso terminologico implica un giudizio di valore derivato dall’ineluttabilità della successione temporale.
Un po’ come le reazioni (o meglio le non reazioni) ad eventi che proprio in questi giorni ci hanno dato criteri di misura ben più realistici del momento attuale. L’intimazione di Electrolux agli operai italiani di trasformarsi in operai polacchi, e la delocalizzazione Fiat sono indicatori tali che avrebbero meritato riflessioni di fase e proposte politiche al livello delle questioni fondanti del rapporto economia-società. La risposta è stata nella sostanza: «è il mercato bellezza». Nella stessa logica, «piaccia o non piaccia», Renzi diventa la risultante necessaria della «modernità» politica.
Se, invece, proviamo a collocare il «renzismo», come il «berlusconismo» del resto, nell’onda lunga del regresso, cioè all’interno dell’essenza di quel termidoro planetario che caratterizza da circa un trentennio l’attuale fase di accumulazione, la successione di vecchio e nuovo legata allo svolgimento lineare del tempo viene completamente scardinata. L’attuale fase regressiva risponde perfettamente a quella che Walter Benjamin ha chiamato «il concetto di inversione della direzione», di regresso delle cose e dunque di regresso del pensiero, in particolare degli aspetti legati alla comunicazione di massa. Di regresso, è del tutto ovvio, del ruolo e delle forme della politica. Nel regresso italiano il nuovo, nel senso della pura successione temporale, diventa una variante di aspetti di ben lunga ascendenza, di aspetti che hanno contrassegnato in negativo tutte le anse critiche della storia italiana. In particolare quando è mancata una seria antitesi a quella sindrome dell’8 settembre che è una delle caratteristiche di cui la classe dirigente ipare impossibilitata a liberarsi.
Nel nuovo che avanza, invertendo la direzione (straordinaria coincidenza tra un vignettista di particolare acume e un grande filosofo), le varianti del vecchio sono numerosissime ed intrecciate tra loro. Mi limiterò ad indicarne due: a) cialtronismo, b) mitridatismo.
a) Faccio di mestiere lo studioso di storia e diffido naturalmente dell’uso di una terminologia a forte impatto e la parola cialtrone senza dubbio lo è. Eppure riesce davvero difficile trovare sinonimi che possano definire con sufficiente approssimazione un fenomeno così caratterizzante della gestione del potere (e non solo) in Italia. Il cialtronismo, sottopelle nelle fasi progressive, ritorna in superficie nelle fasi regressive.
Cialtrone è parola di etimo incerto. Alcuni la fanno derivare da ciarlare, chiacchierare a vuoto. Che è il fenomeno con cui si manifesta una profonda mancanza di serietà, un’attitudine ad arrangiare un gioco truccato e al ribasso. L’attitudine insomma ad una retorica senza prova. Tutto l’arco temporale del regresso ne è contrassegnato. Bossi, Berlusconi, Grillo, Renzi, (la lista potrebbe essere lunghissima) ognuno a suo modo, sono protagonisti rinnovatori della radicata tradizione italiana del cialtronismo. Protagonisti del «mercato politico», sono gli epigoni di una concezione per cui in tale mercato non esistono limitazioni: tutto è vendibile, tutto può essere oggetto di scambio. I fini personali giustificano qualsiasi mezzo, secondo l’insieme di machiavellismo orecchiato e dannunzianesimo d’accatto che trasformano, secondo consolidare ascendenze italiane, l’«imprenditore politico» schumpeteriano in cacicco capo di cacicchi. D’altra parte è importante notare che, nella suddetta tradizione, mercanti-avventurieri di successo (Mussolini, Craxi, Berlusconi) hanno scritto (o si sono fatti scrivere) prefazioni al Principe. Così, in riva d’Arno, il machiavellismo dello Stenterello produce una gravissima operazione politica e culturale con il solo scopo di allargare la propria fetta di mercato, o meglio di diventare tanto monopolista che monopsonista in quel mercato. E, si badi bene, sulla base di una scommessa, nella presunzione di vincerla. Che cosa rimane, in questo impasto, delle promesse della modernità?
b) Alcuni mesi fa, su questo giornale e sempre su sollecitazione di un articolo di Alberto Asor Rosa, ho cercato di indicare le radici profonde del mitridatismo italiano, cioè del fenomeno per cui l’assunzione progressiva di veleno finisce per rendere l’organismo insensibile anche a dosi letali. Nel nostro caso i diversi gradi dell’intreccio perverso tra politica e malaffare. La storia italiana, malauguratamente, è una dimostrazione palese di quanto le suddette radici abbiano affondato con particola facilità in quell’intreccio. La comunione d’intenti derivata dalla «intesa profonda» tra Renzi e Berlusconi e concretizzatasi nell’accordo per la legge elettorale è, appunto, la dose letale che il metodo mitridate non rende percepibile.
Il conterraneo di Machiavelli, che ovviamente non ha la minima idea delle reali questioni trattate dell’autore del Principe, ha giustificato l’operazione in questi termini: «Berlusconi ha i voti». E come sappiamo, per i Machiavelli in sedicesimo, i voti hanno funzioni salvifiche. Chi prende i voti è, in qualche modo, un consacrato, e comunque un legibus solutus.
Il fatto che abbiamo sotto gli occhi è un concentrato di mostruosità. Un potere dello Stato ha giudicato Berlusconi un criminale con coazione a ripetere. Un personaggio, ed un partito, che intendono candidarsi a dirigere quello stesso Stato lo scelgono come padre costituente. C’è di più: l’avventura di Berlusconi (vedi le varie sentenze Previti e Dell’Utri) ha inizio proprio come programmata commistione di potere politico e malaffare. Si tratta di uno degli aspetti più devastanti dei diversi momenti della lunga (anche se carsica) tradizione del mitridatismo. Un veleno oggi letale e tanto più letale in quanto la progressiva assuefazione impedisce che sia percepito come tale.
È nuovo il decrepito volto, l’espetto peggiore, del trasformismo italiano? Di fronte a tutto questo, il nuovo e una modernità diversa consistono proprio nella faticosa, incerta, probabilmente lunga, ricostruzione dell’antitesi. Nessun passaggio politico in quella direzione, anche se provvisorio, può essere sottovalutato. Oggi, pur con tutti i problemi che apre, l’impegno per la lista Tsipras, deve essere avvertito come prioritario. Asor Rosa ha ragione quando insiste sulla necessità di «ricreare una cultura politica della sinistra». Voglio aggiungere solo due corollari. Per vedere davvero all’interno del fenomeno della a-normale mostruosità percepita e vissuta come normalità, abbiamo bisogno di uno sguardo esterno. Nessuna cultura politica di sinistra può nascere dentro lo spazio dell’establishment.
Ricordiamoci, a proposito delle costruzioni culturali, delle parole pronunciate da Paul Klee sull’esperienza del Bauhaus, allora, (1924) al suo apice creativo: «Non abbiamo il sostegno di un popolo. Ma un popolo noi lo cerchiamo».
Nessuna nuova cultura della sinistra è possibile senza un popolo di sinistra.
Sugli esiti renziani di un percorso «nuovo» iniziato più di vent’anni fa, esiti «rivelazione», esiti come «autobiografia» degli elementi costitutivi di quel percorso, si è espresso su questo giornale (15 gennaio) Alberto Asor Rosa. La linea generale delle sue argomentazioni è, a mio parere, largamente condivisibile, in particolare perché permette riflessioni non schiacciate sull’immediatezza della cronaca politica. A proposito della cronaca politica Ilvio Diamanti (la Repubblica, 27 gennaio) si è espresso così: «È difficile raccontare la politica con le tradizionali categorie dell’analisi politica. (…) Raccontare la politica, oggi, significa, infatti, parlare delle Persone e dei Capi».
Credo sia opportuno chiedersi quale sia oggi il rapporto tra il racconto della politica e la comprensione degli itinerari molteplici che convergono nella realtà del momento attuale, compreso quello politico. Un serio studioso come Diamanti ha raccontato con sintetica intelligenza le caratteristiche del leader post-Pd, post-berlusconiano proprio in quanto interamente compenetrato dal berlusconismo (la Repubblica, 6 gennaio). Rarissimi brillanti giornalisti hanno tracciato un ritratto del vecchio-nuovo boss di particolare efficacia e verità. Solo che raccontare il momento non ci permette la comprensione del presente nei suoi percorsi di trasformazione e quindi la formulazione di un serio giudizio. Anzi, quello che ci trasmette il racconto è un senso di ineluttabilità. L’immagine che emerge dal racconto può non piacere, può addirittura risultare orribile, può contenere persino tracce di vecchio, ma nella sostanza è il nuovo, e l’opposizione al nuovo, magari nobile, è comunque il vecchio. E tale uso terminologico implica un giudizio di valore derivato dall’ineluttabilità della successione temporale.
Un po’ come le reazioni (o meglio le non reazioni) ad eventi che proprio in questi giorni ci hanno dato criteri di misura ben più realistici del momento attuale. L’intimazione di Electrolux agli operai italiani di trasformarsi in operai polacchi, e la delocalizzazione Fiat sono indicatori tali che avrebbero meritato riflessioni di fase e proposte politiche al livello delle questioni fondanti del rapporto economia-società. La risposta è stata nella sostanza: «è il mercato bellezza». Nella stessa logica, «piaccia o non piaccia», Renzi diventa la risultante necessaria della «modernità» politica.
Se, invece, proviamo a collocare il «renzismo», come il «berlusconismo» del resto, nell’onda lunga del regresso, cioè all’interno dell’essenza di quel termidoro planetario che caratterizza da circa un trentennio l’attuale fase di accumulazione, la successione di vecchio e nuovo legata allo svolgimento lineare del tempo viene completamente scardinata. L’attuale fase regressiva risponde perfettamente a quella che Walter Benjamin ha chiamato «il concetto di inversione della direzione», di regresso delle cose e dunque di regresso del pensiero, in particolare degli aspetti legati alla comunicazione di massa. Di regresso, è del tutto ovvio, del ruolo e delle forme della politica. Nel regresso italiano il nuovo, nel senso della pura successione temporale, diventa una variante di aspetti di ben lunga ascendenza, di aspetti che hanno contrassegnato in negativo tutte le anse critiche della storia italiana. In particolare quando è mancata una seria antitesi a quella sindrome dell’8 settembre che è una delle caratteristiche di cui la classe dirigente ipare impossibilitata a liberarsi.
Nel nuovo che avanza, invertendo la direzione (straordinaria coincidenza tra un vignettista di particolare acume e un grande filosofo), le varianti del vecchio sono numerosissime ed intrecciate tra loro. Mi limiterò ad indicarne due: a) cialtronismo, b) mitridatismo.
a) Faccio di mestiere lo studioso di storia e diffido naturalmente dell’uso di una terminologia a forte impatto e la parola cialtrone senza dubbio lo è. Eppure riesce davvero difficile trovare sinonimi che possano definire con sufficiente approssimazione un fenomeno così caratterizzante della gestione del potere (e non solo) in Italia. Il cialtronismo, sottopelle nelle fasi progressive, ritorna in superficie nelle fasi regressive.
Cialtrone è parola di etimo incerto. Alcuni la fanno derivare da ciarlare, chiacchierare a vuoto. Che è il fenomeno con cui si manifesta una profonda mancanza di serietà, un’attitudine ad arrangiare un gioco truccato e al ribasso. L’attitudine insomma ad una retorica senza prova. Tutto l’arco temporale del regresso ne è contrassegnato. Bossi, Berlusconi, Grillo, Renzi, (la lista potrebbe essere lunghissima) ognuno a suo modo, sono protagonisti rinnovatori della radicata tradizione italiana del cialtronismo. Protagonisti del «mercato politico», sono gli epigoni di una concezione per cui in tale mercato non esistono limitazioni: tutto è vendibile, tutto può essere oggetto di scambio. I fini personali giustificano qualsiasi mezzo, secondo l’insieme di machiavellismo orecchiato e dannunzianesimo d’accatto che trasformano, secondo consolidare ascendenze italiane, l’«imprenditore politico» schumpeteriano in cacicco capo di cacicchi. D’altra parte è importante notare che, nella suddetta tradizione, mercanti-avventurieri di successo (Mussolini, Craxi, Berlusconi) hanno scritto (o si sono fatti scrivere) prefazioni al Principe. Così, in riva d’Arno, il machiavellismo dello Stenterello produce una gravissima operazione politica e culturale con il solo scopo di allargare la propria fetta di mercato, o meglio di diventare tanto monopolista che monopsonista in quel mercato. E, si badi bene, sulla base di una scommessa, nella presunzione di vincerla. Che cosa rimane, in questo impasto, delle promesse della modernità?
b) Alcuni mesi fa, su questo giornale e sempre su sollecitazione di un articolo di Alberto Asor Rosa, ho cercato di indicare le radici profonde del mitridatismo italiano, cioè del fenomeno per cui l’assunzione progressiva di veleno finisce per rendere l’organismo insensibile anche a dosi letali. Nel nostro caso i diversi gradi dell’intreccio perverso tra politica e malaffare. La storia italiana, malauguratamente, è una dimostrazione palese di quanto le suddette radici abbiano affondato con particola facilità in quell’intreccio. La comunione d’intenti derivata dalla «intesa profonda» tra Renzi e Berlusconi e concretizzatasi nell’accordo per la legge elettorale è, appunto, la dose letale che il metodo mitridate non rende percepibile.
Il conterraneo di Machiavelli, che ovviamente non ha la minima idea delle reali questioni trattate dell’autore del Principe, ha giustificato l’operazione in questi termini: «Berlusconi ha i voti». E come sappiamo, per i Machiavelli in sedicesimo, i voti hanno funzioni salvifiche. Chi prende i voti è, in qualche modo, un consacrato, e comunque un legibus solutus.
Il fatto che abbiamo sotto gli occhi è un concentrato di mostruosità. Un potere dello Stato ha giudicato Berlusconi un criminale con coazione a ripetere. Un personaggio, ed un partito, che intendono candidarsi a dirigere quello stesso Stato lo scelgono come padre costituente. C’è di più: l’avventura di Berlusconi (vedi le varie sentenze Previti e Dell’Utri) ha inizio proprio come programmata commistione di potere politico e malaffare. Si tratta di uno degli aspetti più devastanti dei diversi momenti della lunga (anche se carsica) tradizione del mitridatismo. Un veleno oggi letale e tanto più letale in quanto la progressiva assuefazione impedisce che sia percepito come tale.
È nuovo il decrepito volto, l’espetto peggiore, del trasformismo italiano? Di fronte a tutto questo, il nuovo e una modernità diversa consistono proprio nella faticosa, incerta, probabilmente lunga, ricostruzione dell’antitesi. Nessun passaggio politico in quella direzione, anche se provvisorio, può essere sottovalutato. Oggi, pur con tutti i problemi che apre, l’impegno per la lista Tsipras, deve essere avvertito come prioritario. Asor Rosa ha ragione quando insiste sulla necessità di «ricreare una cultura politica della sinistra». Voglio aggiungere solo due corollari. Per vedere davvero all’interno del fenomeno della a-normale mostruosità percepita e vissuta come normalità, abbiamo bisogno di uno sguardo esterno. Nessuna cultura politica di sinistra può nascere dentro lo spazio dell’establishment.
Ricordiamoci, a proposito delle costruzioni culturali, delle parole pronunciate da Paul Klee sull’esperienza del Bauhaus, allora, (1924) al suo apice creativo: «Non abbiamo il sostegno di un popolo. Ma un popolo noi lo cerchiamo».
Nessuna nuova cultura della sinistra è possibile senza un popolo di sinistra.
Nessun commento:
Posta un commento