Verissimo. Matteo Renzi si «gioca la faccia», e con lui i suoi ministri, soprattutto i tanti esordienti di questa compagine di governo asciutta, profondamente ringiovanita e mai così paritaria (uomini e donne sono in esatto equilibrio numerico).
È un gruppo di lavoro molto, molto “politico” quello che il nuovo presidente del Consiglio ha costruito (e che il capo dello Stato ha vagliato con lui per un tempo singolarmente e sonoramente lungo, ma con esiti finali commentati con serena e convinta pacatezza). E bisogna ammettere che ci eravamo disabituati, dall’autunno del 2011 in qua, a gabinetti ministeriali a tanto alta densità politica – sottolineata anche dalla conferma dei tre ministri chiave del Nuovo centro destra di Angelino Alfano, i più distinti e distanti dal Pd renziano, eppure per niente inconciliabili con un sano e ben calibrato programma riformatore.
È così politico il volto di questo governo che rischia di passare inosservato un tratto distintivo che agli osservatori più acuti, dentro e fuori il Parlamento, non è invece sfuggito: la solida “cerniera” tra la sfera dei partiti e la realtà di chi fa impresa e crea lavoro che è stata realizzata grazie alla chiamata alla guida di dicasteri cardine come Economia e Finanze, Sviluppo economico e Lavoro e Politiche sociali di tre figure di rilievo della scienza economica applicata (Padoan), dell’industria (Guidi), della cooperazione e del non profit (Poletti). Qualcuno grida al capolavoro. Qualcun altro, invece, dà sfogo alla delusione per un incompetente governo-topolino. Esagerazioni, eccitate o ingenerose.
Ma è un fatto che volti e nomi sono sempre un segnale. Ed è netto il segnale composto da Renzi, nel tentativo di rifondare la maggioranza “senza alternative e senza scampo” requisita con più di una ruvidezza e un rapido grazie finale a Enrico Letta: si cambia musica, anche se lo spartito (largamente dettato da Bruxelles) è ancora lo stesso. E questo vuol dire che, adesso, in fatto di riforme e di buone pratiche amministrative, o si fa tutto ciò che serve all’Italia o niente verrà perdonato al “rivoluzionario” leader che ha preteso di intestarsi i passaggi decisivi di una stagione comunque cruciale. È una rivendicazione di ruolo, e una insistita dichiarazione di fiducia, al cospetto di un Paese che si sente spiazzato, che ormai non riesce più a nascondere fatica e scoramento, che non è disposto a riconoscere facce “di riserva” a questa politica (e, probabilmente, sta dubitando anche del mito sulfureo di una risolutiva antipolitica).
Il «Renzi I» nasce con pochi ministri e tante cose da fare. Nessuna sarà di troppo, se servirà a unire, a liberare e a sostenere le energie buone degli italiani, se ridarà dignità alla famiglia e al lavoro. E se saprà dimostrare ai più giovani che questa è una terra dove è possibile progettare, costruire, essere onesti, crederci.
Marco Tarquinio
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