«Non credo che la Storia lo possa assolvere. Lo assolverà la ragion di partito forse, ma non quella di Stato. Giulio Andreotti non era un uomo di Stato». Non ci sta ad omologarsi ai cori della politica Nando Dalla Chiesa, ex parlamentare, figlio del generale Carlo Alberto ucciso da Cosa Nostra nel 1982 e sociologo da anni impegnato nella lotta alle mafie e nell'istruzione alla legalità. Non ci sta ad unirsi al coro di chi oggi dipinge Andreotti come uno statista al di sopra dei sospetti e che prova a derubricare i suoi rapporti con la mafia o i suoi silenzi sui misteri nazionali come fatti minori.
«Giulio Andreotti ci ha consegnato uno Stato pieno di segreti inconfessabili e persino di violazioni dello spirito di quella Costituzione che aveva contribuito a stendere. Non si è uomini di Stato solo perché si ricoprono più cariche istituzionali di chiunque altro nella storia repubblicana. E' una cosa diversa e anzi i veri uomini di stato hanno pagato un prezzo enorme, e anche 'definitivo', dal suo modo di gestire i potere. Se il suo nome è finito regolarmente in tutte le pagine più oscure della storia repubblicana non è certo per caso».
Un giudizio molto duro.
«Per capire la persona basta ricordare quello che Andreotti disse di Giorgio Ambrosoli. Dichiarò che 'se la era andata a cercare'».
Eppure oggi si sprecano gli elogi.
«E' stata una figura omaggiata da destra e da sinistra, tanto che si è arrivati a un passo dal votarlo come Presidente del Senato nel 2006, senza che l'idea scatenasse reazioni particolarmente scandalizzate in nessuna delle fazioni. Si sono fermati solo per un senso di inopportunità. E' stato difeso dalla Prima e dalla Seconda Repubblica, che proprio nella sua figura hanno trovato un punto di contatto: hanno fatto l'impossibile per far credere fosse stato dichiarato innocente al processo palermitano, tanto che a un certo punto facevano quasi pena in questo tentativo. Dopo la prima sentenza di Palermo, e anche dopo la seconda che ne ha confermato i rapporti con la mafia fino al 1980, sono giunti in suo soccorso da tutte le parti politiche: un'autopurificazione di gruppo. Se è innocente lui, hanno pensato, lo siamo anche noi che siamo nati e cresciuti sulla sua scia».
Molti dei suoi silenzi o delle sue scelte vengono però giustificati come necessità in una situazione internazionale molto complessa, in cui i compromessi furono indispensabili.
«Questa è un'ipocrisia da sfatare, e lo faccio subito con un esempio che non riguarda il mio caso personale e quindi non mi vede direttamente coinvolto. Qualcuno potrebbe spiegare qual era la necessità di stare dalla parte di Sindona? Perché ricordiamo che Andreotti è stato con Sindona dall'inizio alla fine e ne ha anche coperto la latitanza. Parliamo di un criminale che gli Stati Uniti volevano fosse arrestato. Quindi non c'entrava niente il mondo diviso in due, non c'entravano nulla gli equilibri e le alleanze internazionali. Questa storia delle scelte necessarie è solo un'ipocrisia».
Una pagina della storia italiana si chiude, ma i misteri rimangono.
«Andreotti si porta via molti segreti, troppi segreti. Mi piacerebbe leggere nei prossimi giorni che nel suo testamento c'è qualcosa in questo senso, ma conoscendone la figura ne dubito. Si sarebbe dovuto andare a fondo quando si poteva: purtroppo i conti con il suo sistema, con il suo metodo di potere e con la sua persona non sono stati fatti».
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