Il sentimento prevalente di queste ultime elezioni? Un non sentimento, un torpore che Cechov definiva «la paralisi dell'anima»: l'indifferenza. Quando a Roma un elettore su due non va a votare, quando in Italia l'astensionismo si gonfia a ogni tornata elettorale come un fiume in piena, significa che il popolo ha ormai divorziato dal Palazzo. Significa che le istituzioni sono rimaste orfane.
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D'altronde, se moglie e marito litigano, prima o poi faranno pace. Ma se non si parlano, se non si guardano più nemmeno in faccia, allora in quel matrimonio non c'è rimasto nulla da salvare.
Tuttavia le istituzioni ricambiano con l'indifferenza la nostra indifferenza. O al più la girano in colpa, nelle stimmate del cattivo cittadino. Non è forse vero che il voto resta un «dovere civico»? Vero, lo afferma l'articolo 48 della Costituzione. Anche se quella norma fa il paio con l'articolo 54, dove chi riveste una funzione pubblica è chiamato a svolgerla «con disciplina ed onore»: se cade un dovere, cade pure l'altro. Ma sta di fatto che la diserzione dalle urne non provoca alcuna conseguenza nella cittadella democratica. In Italia come altrove, il non voto è una reazione sterile, impotente. Se decidi di non scegliere, saranno gli altri a decidere per te. E se anche si presentassero ai seggi soltanto mille italiani, avremmo pur sempre mille parlamentari a presidiare le due Camere.
Ma è corretto questo esercizio matematico? Ed è davvero giusta l'esclusione, per il popolo votante, della regola che vige per il popolo votato? Nessuna assemblea legislativa può deliberare quando manchi il numero legale, ovvero la metà più uno dei propri componenti; invece le elezioni siciliane (ottobre 2012) sono state pienamente valide, benché il 53% degli elettori sia rimasto a casa. Da qui una domanda che investe il concetto stesso di democrazia, quello ereditato dal passato e quello dell'incerto futuro che ci attende. Giacché dopotutto la democrazia dovrebbe essere questo: un potere temperato dal diritto, ma sostenuto dal consenso. E un consenso dimezzato dovrebbe quindi coniugarsi a un potere dimezzato.
Sicché azzardo, e al contempo apro l'ombrello per ripararmi dagli improperi che mi pioveranno addosso. Azzardo un nesso fra la legittimazione del potere e il suo spessore: in termini di durata, di posti, e perché no? di competenze. In sintesi: alle comunali ha votato la metà degli elettori? Vuol dire che quel sindaco, anziché cinque anni, rimarrà in carica due anni e mezzo. Alle regionali si registra un 40 per cento d'astenuti? E allora i consiglieri, invece di 100, questa volta saranno 60. C'è un astensionismo altrettanto consistente alle politiche? Il Parlamento potrà pur sempre scrivere le leggi, ma non quelle di revisione costituzionale, perché una rappresentanza zoppa non può esprimere maggioranze qualificate.
D'accordo, è un paradosso; però è paradossale anche il tempo in cui viviamo. Dove la crisi del voto si combina con la crisi dei partiti, e quest'ultima con la crisi della delega, delle istituzioni rappresentative. Ma è possibile una democrazia senza partiti? Rovesciamo la domanda: è ancora possibile una democrazia con questi partiti? L'America è Obama, non il Partito democratico; in Italia non c'è Obama, ed è in crisi pure il Partito democratico. L'indifferenza, l'abbandono delle urne, viene da qui, da un vuoto divorante. E una soluzione dovremo pur trovarla: perché la democrazia è inclusiva, non può separarsi dal suo popolo.
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