«O Imu o morte» (per il governo di Enrico Letta). Che Silvio Berlusconi attribuisca tale peso al mantenimento di una sua ennesima promessa elettorale, solitamente «da marinaio», qualche significato deve pur averlo.
Tanto più che ben difficilmente finanze pubbliche allo stremo potranno dare seguito senza improbabili coperture a tali propositi; specie nella loro versione extralarge: intero riaccredito dei versamenti già avvenuti. Dunque una mossa a valenza Il retropensiero di mettere in scena la riedizione teatralizzata di un passaggio chiave nel processo di sradicamento dei fondamenti democratici della Prima Repubblica. Che il Cavaliere deve ricordare benissimo, visto che - guarda caso - è stato proprio lui il primo beneficiario dei vantaggi politici derivati: la svendita da parte del Caf del debito pubblico a mezzo Bot e Cct.
Per chi lo avesse dimenticato, «Caf» era l'acronimo composto dai nomi dei tre politici - Bettino Craxi, Giulio Andreotti, Arnaldo Forlani - che all'inizio degli anni Ottanta si accordarono per bloccare l'allargamento della maggioranza di governo al Pci; quindi, per la liquidazione della strategia di «compromesso storico», che aveva improntato il decennio precedente, e lo spegnimento del conflitto attraverso la ripresa di politiche clientelari che bloccassero la deriva laborista. Allora giunse la marcia dei quarantamila quadri Fiat (1980), poi l'abrogazione della scala mobile (1984).
Alla ricerca di una base di consenso a supporto della strategia restaurativa, venne messa in cantiere una massiccia distribuzione di ricchezza a vantaggio del segmento sociale in grado di investire in titoli di Stato che offrivano tassi di interesse a due cifre. In altre parole, un chiaro arricchimento individuale a spese del debito pubblico. Con effetti dopanti.
In quegli anni le imprese, a partire dalla Fiat di Cesare Romiti, chiusero bilanci in attivo grazie a tali operazioni finanziarie, non per ricavi industriali. A seguito dei trasferimenti speculativi prese corpo quella neoborghesia (cafona) che andò ad ingrossare la già cospicua area della rendita parassitaria; a cui le televisioni commerciali del Biscione fornirono un simulacro di ideologia a legittimazione dei propri istinti rampantistici.
Semmai la beffa fu che la mutazione nel ventre del Paese si concretizzò dopo che Mani Pulite aveva ferito a morte la stagione terminale della Prima Repubblica corrosa dall'affarismo. Infatti fu Berlusconi, già fiduciario del Caf nel business mediatico, a lucrare in termini elettorali i dividendi della nuova composizione sociale. Un tema a cui è sempre stato attentissimo, a differenza dei suoi presunti oppositori; che pure - sulla carta - avrebbero dovuto avere ben presente la lezione gramsciana sul Blocco Storico a supporto dell'egemonia.
Anche la discussione sull'Imu può essere letta in questa chiave. Visto che la questione viene esposta nel modo ripugnante, prima ancora che riduttivo, del «mettere o meno le mani nelle tasche dei cittadini» (la formulazione diventata corrente come terrorismo verbale sul ruolo democratico del prelievo fiscale in funzione egualitaria e di sostegno ai beni collettivi). In effetti qualcuno osserva che l'ipotetico risarcimento della tassa sulla casa andrebbe a vantaggio del consumo interno rilanciando la domanda con l'aumento della capacità d'acquisto.
Ma la drammatizzazione del Cavaliere ha il solo scopo di consolidare un conglomerato di interessi proprietari a vario livello quanto convergenti, nella logica del voto di scambio. L'importante, più che realizzare quanto promesso, è mandare un segnale di comparaggio a pezzi della società. Tra l'altro, un'aggregazione maggioritaria solo a valori relativi, che diventano assoluti in quanto nessuno più sembra riflettere sulle possibili aggregazioni a supporto di politiche di stampo alternativo a quelle della difesa del privilegio e degli equilibri vigenti.
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