Si fa presto a dare la colpa alla leadership di Bersani o ai consigli maldestri dei suoi più o meno giovani «colonnelli». Si fa presto - come fanno i militanti di «occupy Pd» - a mettere sotto accusa la degenerazione oligarchica dei dirigenti, la loro pietrificazione correntizia, il loro distacco dalla base. Ma l'origine vera delle ore difficilissime che sta attraversando il Partito democratico non dipende da nessuno di questi fattori. È una difficoltà posizionale-strategica che rispecchia tutti i nodi accumulatisi in questi anni e mai sciolti.
La crisi dei democratici, la loro impotenza e irrisolutezza strategica si manifestano oggi pienamente perché solo oggi, per la prima volta, il Pd si trova stretto in una morsa tra il tradizionale avversario a destra (il Pdl), e un nuovo, inedito concorrente a sinistra. Non una delle tante più o meno velleitarie formazioni neocomuniste o verde-ecologiste sorte nell'ultimo ventennio, bensì il Movimento 5 Stelle, cioè l'espressione di stati d'animo e culture per ampiezza e contenuti radicalmente inedite nel panorama della sinistra.
È stata infatti la forte emorragia di voti verso i «grillini», cioè a sinistra, che ha determinato il cul-de-sac strategico dei democratici: proprio in quella circostanza elettorale in cui tutto avrebbe dovuto preludere alla loro vittoria sulla destra. Siamo così di fronte ad una specie di nemesi storica: quella battaglia contro le culture radical-movimentiste alla propria sinistra che il Pd non ha mai voluto o saputo condurre (salvo forse nel periodo della leadership di Veltroni), ora esso è costretto a subirla per effetto della presenza del «grillismo». Quando, però, è forse troppo tardi: sia a causa della radicale perdita di egemonia che esso ha subito nel frattempo, sia della ormai feroce lotta interna che lo dilania e lo paralizza.
La cultura, o forse meglio, l'antropologia che si esprime nel M5S non ha più assolutamente nulla dell'antico sfondo marxista, non ha alcuna ispirazione classista, non prefigura né immagina alcuna fondazione di rapporti sociali nuovi. Si tratta di una cultura, o più ancora di un'antropologia mossa da una sorta di irrefrenabile estremismo democratico nel quale sembra incarnarsi una volontà assoluta di eguaglianza, o per meglio dire di equiparazione, di livellamento: quella stessa che Tocqueville vedeva con inquietudine come l'inevitabile frutto della società democratica. Non c'è volontà di distribuzione delle ricchezze, bensì di cancellazione di qualunque cosa possa apparire un privilegio. Non c'è alcuna noncuranza per la formalità delle leggi, bensì il sogno di una giuridicizzazione universale, di una normazione estesa a tutto. Non c'è visione di classe, bensì utopia di una cittadinanza planetaria articolata in diritti eguali per tutti gli esseri umani senza distinzione alcuna. E infine la Costituzione della Repubblica non è più, come nella tradizione del Pci, strumento o occasione per battaglie e per alleanze entrambe di natura squisitamente politica; bensì una sorta di inappellabile «Tavola della Legge», di definitivo ipse dixit rivolto alla comunità. La Carta non addita un progetto sociale per quanto ardito, bensì incarna un inveramento etico da adempiere.
Tutto ciò è qualcosa che ricorda abbastanza da vicino una forma di giacobinismo, e come questo sembra metterci poco, con l'aiuto delle circostanze, a scivolare in scoppi di indignazione preludio alla violenza. Si accampa al centro di questo panorama di estremismo democratico un mitico obbligo, quello della «trasparenza». Tutto deve essere comunicato a tutti, visto e ascoltato da tutti, partecipato da tutti, rendicontato a tutti: quasi a prefigurare un potere capillarmente distribuito, il controllo di ognuno su tutti, e di tutti su ciascuno: un potere con la sua sede ideale in un «Panopticon».
È una cultura, un'antropologia - quella cui ha dato voce così potente il M5S - che raccoglie il precipitato di venti-trenta anni di movimentismo italiano di ogni colore (femminile, omosessuale, viola, studentesco, dei beni comuni, ecc...). Un movimentismo a base di rivendicazione di «diritti», di invocata centralità della dimensione giudiziaria, di demonizzazione spesso paranoica di qualunque cosa appaia un «potere», di comunitarismo e insieme di individualismo, di sfiducia verso qualunque istanza organizzativa stabile (dai partiti ai sindacati) e di fiducia unicamente in ciò che viene dal «basso».
In un panorama sociale terremotato come quello nostrano, caratterizzato da una struttura politico-statale inefficiente e totalmente screditata, questa cultura si è presentata come la cultura per antonomasia della «protesta», dell'«antagonismo», del «rifiuto». Riallacciandosi immediatamente, cioè, a quella cultura che in Italia domina tradizionalmente larghi settori della sinistra, incarna la sua tradizione consolidata, ne rappresenta da sempre lo slancio vitale.
Si tratta di una cultura, di uno stato d'animo, che il Pci, quando esisteva, conosceva bene. Ma che riusciva a metabolizzare e a neutralizzare grazie alla sua ideologia e alla sua organizzazione, all'apparenza anch'esse ispirate all'«antagonismo» e al «rifiuto». Antagonismo e rifiuto che tuttavia né l'ideologia, né l'organizzazione del Pd, a causa della loro natura riformista, potevano ereditare; e che infatti non hanno ereditato. Ma che quindi, allora, il Pd avrebbe dovuto prendere di petto e combattere, consapevole del pericolo che essi rappresentavano. Ha invece evitato di farlo, anzi li ha spesso vezzeggiati, accarezzati, assecondati, probabilmente convinto di poterne sempre, alla fine, beneficiare dal punto di vista elettorale.
Ma così non è stato. Ora quell'antagonismo, quel rifiuto democratico-radical-giacobino se li ritrova davanti come base di consenso di un forte partito che non esita a contrapporglisi. Per la prima volta gli eredi dell'antico Pci si trovano a che fare con un forte partito nella loro stessa area e che anzi minaccia di scavalcarli a sinistra. Sta qui la causa di fondo della loro crisi, ed è questo il vero terremoto politico italiano.
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