Sei mesi fa l'Italia era completamente innamorata di Matteo Renzi: con lui il Pd avrebbe di sicuro vinto le elezioni alla grande. Ma pure oggi, e anche domani, egli rappresenterebbe un candidato di certo fortissimo in qualunque nuova elezione.
Le cause della popolarità del sindaco di Firenze sono notissime. All'Italia vecchia e immobile del sempre eguale, all'Italia dell'insipida chiacchiera politica per addetti ai lavori, dell'arabesco concettuale avvitato su se stesso, egli contrappone con la sua figura un Paese giovane, voglioso di muoversi e di mettere nuovamente alla prova le proprie energie, di tentare vie nuove. Che parla senza usare mezze parole.
Certo: egli è anche uno portato ad andare a volte oltre il segno, a mostrare un po' troppa disinvoltura e ambizione, a strafare e magari anche un po' a straparlare. Ma al quale tutto si può perdonare grazie a quanto di positivo e di nuovo rappresenta. Perché alla fine, per la maggioranza degli italiani Renzi è questo: la promessa di un cambio di passo, di una rottura, di una reale diversità; una ventata di aria fresca. Per un Paese in crisi non è davvero poco.
Proprio da questo punto di vista appare sostanzialmente incomprensibile quanto egli sta facendo da tre mesi, accettando - e anzi, si direbbe, addirittura sollecitando - di essere coinvolto nelle manovre di un partito, il Pd, che è sì il suo partito, ma che per tantissimi versi è il suo contrario. Un partito vecchio, conteso da anziani oligarchi e quarantenni ribelli ma dell'ultima ora, laddove Renzi è, come che sia, simbolo di una gioventù vera che non ha avuto paura di uscire allo scoperto; un partito campione di conformismo e di omologazione culturale laddove Renzi si fa forte (pure troppo!) della propria spregiudicatezza; il partito di quelli per antonomasia «politicamente corretti» mentre Renzi proprio da costoro è detestato.
È singolare che oggi egli si faccia tentare dall'idea di diventare il segretario di un partito del genere. E dunque s'infili in una trafila quotidiana di trattative e di manovre, di interviste e di dichiarazioni, che hanno il solo effetto di consumarne terribilmente l'immagine. Pur nell'ipotesi che riuscisse a fare il segretario e si andasse entro breve tempo - diciamo un anno - alle elezioni, Renzi, tra l'altro, si troverebbe davanti a un'alternativa comunque scomodissima: o fare la campagna elettorale alla testa di un partito ancora pieno di Rosy Bindi, di Finocchiaro, di Cuperlo e compagnia bella, e magari con un D'Alema passato inopinatamente dal ruolo di Grande Rottamato a quello di Lord Protettore, dunque un partito che sarebbe la smentita vivente di ciò che invece è il suo segretario; ovvero alla testa di un partito da lui appena epurato e rovesciato come un calzino, ma proprio per questo in una difficile fase di riassestamento, ancora né carne né pesce e presumibilmente pieno di rancori più o meno sotterranei. Certo uno strumento inadatto a uno scontro elettorale.
Ma se le cose stanno così non sarebbe assai più conveniente per il sindaco di Firenze stare ad aspettare sotto la tenda? Dopotutto il Pd sa bene che se vuole davvero vincere un'elezione politica altri candidati oltre lui non ci sono (essendo francamente incredibile che a Largo del Nazareno ci sia qualcuno che pensa di convincere gli italiani a farsi governare da Fassina o da Civati). È solo a Renzi che il Pd può ricorrere. E a quel punto egli sarebbe in grado di imporre agevolmente le sue condizioni: sia per il programma che per la composizione delle liste. Quelle condizioni di rottura e di novità che di fronte al deserto e al vecchiume della Destra egli ha saputo rappresentare e in cui il Paese non vuole cessare di sperare.
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