«I minatori sono la spina dorsale della nazione», era solito ripetere al figlio, minatore come lui nel bacino carbonifero scozzese del Fife, un vecchio reduce della battaglia di Mons: «Senza di loro il Paese non potrebbe andare avanti».
Se fino alla metà degli anni Ottanta del Novecento quasi tutti, in Gran Bretagna, la pensavano come l’anziano combattente – era stato il carbone, in fin dei conti, ad innescare quella rivoluzione energetica che aveva consentito lo sviluppo industriale del Paese e la sua crescita economica, ed era stato ancora il carbone, pur nella sua problematicità, a dare un lavoro sicuro (e un bel po’ di patologie polmonari) a parecchi milioni di britannici – Margareth Thatcher e Ian Mac Gregor, il suo advisor, la vedevano in un altro modo. I minatori erano stati sì, per secoli, la spina dorsale della nazione ma adesso il corpo di quella nazione era in grado di sostenersi da solo e di quell’ormai inutile struttura, così ingombrante e improduttiva, ci si poteva sbarazzare.
Le miniere dovevano perciò chiudere e i suoi operai sparire. Fedele al proprio credo neoliberista, per la Lady di Ferro l’intervento pubblico che sorreggeva l’industria carbonifera andava subito sostituito con un mercato scevro da regole e la solidarietà con la concorrenza più spietata.
Se il governo, dunque, era pronto a fare la guerra ai minatori britannici, al loro sindacato ma anche a un’intera classe sociale (il proletariato, con le sue tradizioni di solidarietà collettiva) e a un sistema economico (il socialismo), i lavoratori e le loro famiglie, dal Nord al Sud del Paese, erano pronti a resistere, come ci racconta ancora oggi quello straordinario e insieme doloroso evento che quarant’anni fa ha cambiato il destino della Gran Bretagna: lo sciopero generale dei minatori. È stata la più importante battaglia del ventesimo secolo, durata un anno e conclusa con una grande sconfitta. Dei lavoratori delle miniere e della solidarietà della classe operaia.
Annunciato il 12 marzo 1984 dal National Union of Mineworkers, il sindacato nazionale di categoria guidato a quel tempo da Arthur Scargill, lo sciopero era una risposta alla “dichiarazione di guerra” del National Coal Board (l’ente presieduto da Mac Gregor che gestiva l’industria nazionale del carbone) con la quale il 5 marzo aveva comunicato l’imminente chiusura di venti pozzi minerari improduttivi, sui centosettanta in attività, e il taglio di ventimila posti di lavoro. Il giorno seguente avevano incrociato le braccia gli operai di una miniera dello Yorkshire; il 12, Scargill aveva chiamato a raccolta l’intero comparto per lo sciopero generale. «Non dobbiamo mai tacere e dobbiamo difendere sempre ciò in cui crediamo», era stata la sua esortazione. Non tutti, però, erano convinti dell’opportunità e della legalità di questa mobilitazione poiché era stata proclamata senza una votazione nazionale.
Nonostante le polemiche, in moltissimi vi avevano da subito aderito: i minatori dello Yorkshire e del Kent, gli scozzesi, quelli del Sud del Galles e del Nordest, soprattutto dalla contea di Durham: in tutto oltre duecentomila persone, decise a lottare in nome di quella solidarietà che da sempre è l’essenza della working class e per difendere il proprio posto di lavoro, il futuro delle famiglie e delle comunità cresciute intorno alle miniere. A quel tempo, infatti, in molte parti della Gran Bretagna la chiusura dei pozzi – scesi dai 700 del 1960 ai circa 300 del 1970 con una contrazione della forza lavoro di oltre 300 mila unità – aveva già trasformato villaggi e cittadine minerarie in luoghi spopolati, privi di servizi e abitati solo da disoccupazione, povertà e svantaggio sociale.
Un po’ tutti gli scioperanti erano sicuri che ad affossare il settore fossero stata la cattiva gestione e la mancanza di investimenti da parte dei vari governi e sapevano, attraverso le indiscrezioni raccolte da Scargill, che le chiusure, in realtà, sarebbero state ben di più, probabilmente oltre settanta.
La stragrande maggioranza dei minatori, soprattutto quelli delle Midlands orientali, che non avevano invece voluto unirsi allo sciopero perché confidavano nelle promesse del governo (che le loro miniere, cioè, sarebbero rimaste aperte), avrebbero più tardi dato vita ad un sindacato “antagonista” a quello di Scargill ma assai vicino al governo Thatcher. Ciononostante, nel giro di una decina d’anni anche la gran parte di quelle miniere sarebbe stata chiusa e le loro comunità irreparabilmente ferite da rancori, divisioni e tensioni tra chi aveva scioperato e chi no. Questo, purtroppo, accadrà anche altrove.
Come hanno confermato i documenti divulgati nel 2014 dal National Archive, il conflitto che il governo aveva in mente di far esplodere era aspro e impari: fondato su bugie e false promesse, la sua realizzazione richiedeva la piena collaborazione dei manganelli, delle manette, dei cani aizzati dalla polizia contro i picchetti dei lavoratori in lotta; delle mistificazioni dei media filo-governativi e dell’infiltrazione di agenti provocatori e uomini dell’M15 nel sindacato. Con i minatori – quel “nemico interno” che Margareth Thatcher identificava con i loro leader e che contrapponeva al «nemico esterno» contro cui il Regno Unito stava combattendo nelle Falklands/Malvinas – i Tories sentivano di avere anche un conto in sospeso dopo l’umiliazione subita nel 1974 quando, al termine di uno sciopero di tre mesi per il salario che aveva causato parecchi blackout in tutto il Paese, era rovinosamente caduto il governo di Edward “Ted” Heat. La Premier era consapevole che, una volta annunciata la chiusura dei pozzi, i minatori avrebbero potuto bloccare tutto un’altra volta e così, insieme con Mac Gregor e altri membri del governo, aveva pianificato una strategia con cui soffocare il dissenso e dividere il sindacato. Ispirato al “Rapporto Ridley”, redatto nel 1977 dal Barone Nicholas Ridley, il piano prevedeva la preparazione di massicce scorte di carbone da stoccare nelle centrali elettriche, il mantenimento al lavoro – finché fosse stato utile al governo – di un elevato numero di minatori “crumiri”, la creazione di movimenti “anti-sciopero”, l’utilizzo della polizia contro i “picchetti volanti” e la mobilitazione dell’apparato giudiziario nei confronti dei responsabili di “reati contro l’ordine pubblico”.
Non era infrequente, in quei mesi, vedere i manifestanti sfuggire alle cariche della polizia e agli inseguimenti dei cani scavalcando le staccionate delle case per trovare rifugio nei retri dei giardini, né scorgere agenti a cavallo che manganellavano donne, anziani, persino fotoreporter. Il climax della violenza era stato raggiunto il 18 giugno a Orgreave, nella periferia di Sheffield, quando uno scontro tra i picchetti dei minatori e la South Yorkshire Police insieme a quella Metropolitana si era concluso con oltre novanta arresti e condanne, 123 feriti tra operai e forze dell’ordine e la BBC piombata al centro delle contestazioni per il modo parziale con cui aveva presentato ai britannici la “battaglia”.
Nel maggio 1985, due mesi dopo la fine dello sciopero, un processo avrebbe messo in luce, invano, le violenze commesse dai poliziotti e le coperture di cui avevano goduto; nel 2015, la richiesta di apertura di un’indagine pubblica e superpartes sul loro operato, inoltrata al Governo di Theresa May dalla Orgreeave Truth and Justice Campaign (“Campagna per la verità e Giustizia a Orgreave”), si sarebbe conclusa con il “no” della ministra degli interni poiché «nessuno, a Orgreave, era morto».
A permettere ai minatori di condurre così a lungo la resistenza era stato l’ampio supporto ricevuto dai lavoratori delle ferrovie, delle industrie pesanti, dei portuali ma, specialmente, delle donne. Mogli, figlie, madri, sorelle, attive soprattutto nelle file del movimento nazionale delle Women Against Pit Closures (“Donne contro le chiusure delle miniere”), nei picchetti o nella preparazione dei pasti, nella raccolta di fondi o nella sensibilizzazione alla lotta attraverso marce e conferenze in tutta la Gran Bretagna. Alcune erano finite in manette, altre si erano ritrovate a rifiutare il denaro che era stato loro offerto affinché convincessero i mariti a tornare in miniera. «La Thatcher, togliendo il cibo dalla bocca dei nostri figli, credeva che noi donne, ad un certo punto, persuadessimo gli uomini a tornare al lavoro. Si sbagliava di grosso», racconterà una di loro a Beverly Trounce, figlia di un minatore e autrice del libro From a Rock to a Hard Place: the 1984/1985 Miner’s Strike, da poco ristampato. Un consistente sostegno anche economico era arrivato, inoltre, dai gay e dalle lesbiche inglesi più radicali e da tantissimi registi, artisti, scrittori e musicisti: da Billy Bragg ai New Order, dagli Style Council ai Test Dept. Lo spirito di quella che qualcuno ha definito «una storia di trionfo e tragedia, di resurrezione e rovina», è arrivato fino a noi, in questo nuovo complicato secolo, grazie a libri, a documentari e a film di successo come Billy Elliott, Brassed Off, Pride. Tuttavia, l’amarezza e la rabbia che hanno caratterizzato le battute finali dello sciopero hanno scavato in profondità, negli anni, quelle povere terre di miniera e cambiato l’anima del Paese. Non solo le comunità si sono spaccate e ulteriormente infragilite ma a spezzarsi è stata anche la fiducia dei lavoratori nei confronti del Partito Laburista: questa sensazione di tradimento ha portato nel 2016 moltissimi ex minatori del Nordest e delle Midlands (oltre allo stesso Arthur Scargill) a votare per la Brexit e, nel 2019, a voltare le spalle allo storico dominio dei Labours in favore dei Conservatori guidati da Boris Johnson.
Nessun commento:
Posta un commento