l tweet della professoressa Donatella Di Cesare sulla morte di Barbara Balzerani non mi è piaciuto e francamente mi è parso qualcosa di più e di diverso che l’espressione di umana compassione per una persona scomparsa.
Ma non mi hanno convinto neanche le parole con cui, nell’intervista di ieri a La Stampa ha cercato di spiegare il senso di un post troppo ermetico, che a suo avviso si è prestato a fraintendimenti.
Credo che il malinteso non sia recuperabile. Almeno dal mio punto di vista. E me ne dispiaccio perché ho avuto modo, in alcune recenti occasioni, di apprezzare alcune opinioni della professoressa. Anch’io appartengo alla generazione degli anni Settanta. E ho vissuto, come molti altri, le passioni e le speranze di un protagonismo giovanile che progettava il futuro e si batteva per un mondo più giusto. Ma quella stagione se va posta sotto il segno della rivoluzione, come sembra indicare Di Cesare, andrebbe almeno considerata come la stagione di una rivoluzione tradita. Tradita proprio dalle Brigate rosse che scelsero la politica guerreggiata e la lotta armata con l’obiettivo di abbattere lo Stato cui negavano legittimità democratica. Ma la violenza brigatista difficilmente poteva affermare un vero cambiamento. E non era solo una questione di mezzi sbagliati e violenti; negando, armi in pugno, il valore della democrazia si negava alla radice anche l’idea di convivenza politica e civile che era stata disegnata nella Costituzione del ’48. Non a caso gli obiettivi delle BR sono stati quelle forze politiche e sociali che avevano scritto la Costituzione e cercavano di attuarla realizzando le riforme da tempo attese, in un contesto internazionale ancora segnato da aspre contrapposizioni ideologiche.
Sarebbe infatti sbagliato identificare gli anni settanta con agli anni di piombo, dimenticando alcune leggi di attuazione dei principi costituzionali: pensiamo alla nascita delle Regioni, allo Statuto dei lavoratori, alla parità tra uomo e donna nel nuovo diritto di famiglia, alla legge sul divorzio, ai decreti delegati nella scuola, all’abolizione dei manicomi con la Legge Basaglia, all’istituzione del Servizio sanitario nazionale.
Un riconoscimento di diritti fondamentali che forse appariva tardivo e troppo lento ma che comunque stava cambiando in profondità la società. La lotta armata delle Brigate Rosse e degli altri gruppi terroristici ha interrotto quel processo privandoci degli uomini migliori che nello Stato, nelle forze politiche e sociali stavano, con fatica, portando a compimento la costruzione della democrazia costituzionale. Ho sempre pensato che la strategia eversiva delle BR sia stata funzionale, consapevolmente o inconsapevolmente, a quei poteri oscuri interni e internazionali che si opponevano a questo cambiamento. Poteri che contestualmente alimentavano e coprivano lo stragismo eversivo neofascista perché non si erano mai riconosciuti nella Repubblica nata dalla Costituzione del 1948.
L’uccisione di Aldo Moro ha tragicamente interrotto il disegno riformatore che vedeva dialogare il leader democristiano con Enrico Berlinguer. Il progetto di una matura democrazia dell’alternanza, che avrebbe archiviato la regola tacitamente seguita dal dopoguerra dell’esclusione del PCI dal governo del Paese.
Gli anni Settanta si aprono con la strage di Piazza Fontana a Milano e si chiudono con l’uccisione di Piersanti Mattarella, il 6 gennaio 1980, di Vittorio Bachelet il 12 febbraio 1980, e con la strage alla stazione di Bologna il 2 agosto del 1980. È doveroso approfondire lo studio e la riflessione storica e politica su quel decennio, così carico ancora di ombre e zone oscure. È stato il presidente della Repubblica Mattarella a sottolineare, nella giornata dedicata alle vittime del terrorismo, il 9 maggio dell’anno scorso, il bisogno di verità sulle “gravi deviazioni compiute da elementi dello Stato”. In quella occasione Mattarella ha ricordato anche il dolore “indicibile e irrecuperabile” dei familiari delle vittime. Quel dolore merita rispetto e non può essere taciuto ogni volta che si parla del terrorismo che ha insanguinato il paese e che è stato sconfitto senza abdicare alle regole dello Stato di diritto, senza torsioni autoritarie. La democrazia repubblicana ha dimostrato la sua forza allargando e non riducendo gli spazi di libertà e di confronto, facendo leva sul rispetto e il dialogo. E se quella stagione si è chiusa per sempre lo si deve proprio all’impegno di quei partiti che si riconoscevano nel patto costituzionale.
Per questo sono un pessimo esempio i tentativi di revisionismo storico della destra, oggi al governo, che tende a rimuovere le responsabilità del terrorismo nero e a intimidire chi esprime opinioni diverse ancorché sbagliate
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