La piccola grande lezione di After Work di Erik Gandini è di allargare lo sguardo oltre i confini nazionali e di non parlare di lavoro soltanto inseguendo i dati, ma guardando alle persone
Si potrebbe pensare che, nel 2023, l'approccio al lavoro sia simile un po’ ovunque, almeno nelle società sviluppate. Il capitalismo avanzato, i modelli di successo globalizzati, i comportamenti omologati, signora mia... Poi arriva un documentario come After Work di Erik Gandini, in queste settimane al cinema e nei prossimi mesi speriamo anche in tv, e questa impressione si sgretola, per lasciare il posto alla scoperta di situazioni radicalmente diverse, anche tra Paesi avanzati. E proprio mentre qua e là, dalla Spagna alla Nuova Zelanda, si sperimenta la settimana lavorativa corta, Gandini ci presenta coreani (del sud) che lavorano 14 ore tutti i giorni, tanto che alcune aziende devono imporre lo spegnimento programmato dei computer a una certa ora e il governo deve lanciare campagne pubblicitarie per disincentivare il super-lavoro. Dallo stesso lato della barricata, e senza contromisure statali o aziendali all’orizzonte, gli statunitensi, che solo l'anno scorso hanno rinunciato a quasi 6 milioni di ore di ferie pagate perché, apparentemente, non saprebbero cosa farsene.
Etica calvinista o horror vacui?
All’altro estremo dello spettro, ecco kuwaitiani pagati dallo stato semplicemente per presentarsi in ufficio - tanto per le fatiche manuali ci sono gli immigrati dal sud del mondo e per pagare i salari di tutti, scaldatori di sedie e nuovi schiavi, c'è il petrolio. A un certo punto una donna racconta che, in mesi di lavoro, il suo unico incarico è stato inoltrare una mail.
Tutte vite che After Work, con le sue immagini curate e le sue musiche stranianti, ci mostra come normali, talvolta persino desiderabili, ma in sostanza profondamente disagiate. Come dire: si può morire di troppo lavoro ma anche della sua assenza.
In mezzo ci siamo noi Italiani, che Gandini (quello di Videocracy e non solo) racconta attraverso un giardiniere entusiasta, un’ereditiera sfaccendata che vive "esplorando le sue passioni" e il di lei marito, un manager ossessionato dalla produttività. Ma non si elude il tema del Paese col più alto tasso di giovani che non studiano né lavorano – talvolta anche perché ce lo possiamo permettere: da un lato molte case di proprietà e rendite finanziarie, dall’altro pochi figli, che quindi possono anche campare delle risorse accumulate dai genitori. E se nella rappresentazione di questi ragazzi il documentario pecca a tratti di superficialità, così come nelle analisi abbozzate dalla filosofa Anderson o dal monumento Chomsky, sono invece i singoli ritratti di quei lavoratori agli antipodi ad aprire preziosi varchi di comprensione del presente. Esistenze normali eppure particolari, che raramente entrano nei radar dei nostri editoriali e dei dibattiti televisivi sul mondo del lavoro.
E infatti vorremmo sapere di più del motivatore americano che pare uscito da Magnolia, uno che ripete (abilmente montato) il mantra "I'm so busy, so busy" e sghignazza nervoso quando l'intervistatore gli confessa di avere ben sei settimane di ferie all'anno. Lui ne avrebbe due, ma probabilmente rinuncia anche a quelle, he’s so busy… (vedere qui i primi minuti del documentario, per inquadrare il personaggio). E vorremmo immergerci nelle vite degli impiegati del Kuwait che passano il tempo alla scrivania leggendo romanzi o guardando film - e in alcuni casi finiscono comunque per licenziarsi, vinti dal senso di inutilità e dalla depressione. Così come vorremmo seguire le giornate di quel ragazzo coreano, stremato dalla sovra-occupazione, che a un certo punto attira la vergogna dei genitori col gesto di rivolta più intollerabile per gli standard nazionali: rifiutarsi di lavorare.
Sta qui la piccola-grande lezione per tante inchieste televisive nostrane – del resto After Work è realizzato in coproduzione, tra gli altri, con la tv tedesca, svedese e danese. Uno: allargare lo sguardo oltre i confini nazionali (da noi lo fa quasi solo l’ottimo Presa diretta di Riccardo Iacona) e occuparci del mondo, prima che sia il mondo a occuparsi di noi. Due: non parlare di lavoro soltanto inseguendo i dati sull’occupazione e le polemiche politiche, ma andando a caccia di personaggi sorprendenti, di storie individuali ambivalenti, perché i cliché e gli slogan si superano guardando dentro le contraddizioni. Solo così, forse, riusciremo ad impostare dibattiti sensati sull’intelligenza artificiale e sui robot, che un giorno potrebbero trasformarci tutti in scaldatori di sedie kuwaitiani o in bamboccioni forzati. Perché in fondo, lo accenna nel documentario quell’altro drogato di lavoro che è Elon Musk ma lo diceva già Gustave Flaubert un secolo e mezzo fa: "“La vita non è tollerabile se non attraverso un’occupazione. Quando si abbandona la propria chimera, si muore di tristezza".
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