giovedì 21 marzo 2024

VIAGGIO NEL MONDO DEL LAVORO. PUCCIARELLI S. TV TALK, Così diversi così disagiati. Un viaggio dentro al mondo del lavoro, HUFFPOST, 2.07.2023

 

La piccola grande lezione di After Work di Erik Gandini è di allargare lo sguardo oltre i confini nazionali e di non parlare di lavoro soltanto inseguendo i dati, ma guardando alle persone



Si potrebbe pensare che, nel 2023, l'approccio al lavoro sia simile un po’ ovunque, almeno nelle società sviluppate. Il capitalismo avanzato, i modelli di successo globalizzati, i comportamenti omologati, signora mia... Poi arriva un documentario come After Work di Erik Gandini, in queste settimane al cinema e nei prossimi mesi speriamo anche in tv, e questa impressione si sgretola, per lasciare il posto alla scoperta di situazioni radicalmente diverse, anche tra Paesi avanzati. E proprio mentre qua e là, dalla Spagna alla Nuova Zelanda, si sperimenta la settimana lavorativa corta, Gandini ci presenta coreani (del sud) che lavorano 14 ore tutti i giorni, tanto che alcune aziende devono imporre lo spegnimento programmato dei computer a una certa ora e il governo deve lanciare campagne pubblicitarie per disincentivare il super-lavoro. Dallo stesso lato della barricata, e senza contromisure statali o aziendali all’orizzonte, gli statunitensi, che solo l'anno scorso hanno rinunciato a quasi 6 milioni di ore di ferie pagate perché, apparentemente, non saprebbero cosa farsene.


Etica calvinista o horror vacui?

All’altro estremo dello spettro, ecco kuwaitiani pagati dallo stato semplicemente per presentarsi in ufficio - tanto per le fatiche manuali ci sono gli immigrati dal sud del mondo e per pagare i salari di tutti, scaldatori di sedie e nuovi schiavi, c'è il petrolio. A un certo punto una donna racconta che, in mesi di lavoro, il suo unico incarico è stato inoltrare una mail.

Tutte vite che After Work, con le sue immagini curate e le sue musiche stranianti, ci mostra come normali, talvolta persino desiderabili, ma in sostanza profondamente disagiate. Come dire: si può morire di troppo lavoro ma anche della sua assenza.

In mezzo ci siamo noi Italiani, che Gandini (quello di Videocracy e non solo) racconta attraverso un giardiniere entusiasta, un’ereditiera sfaccendata che vive "esplorando le sue passioni" e il di lei marito, un manager ossessionato dalla produttività. Ma non si elude il tema del Paese col più alto tasso di giovani che non studiano né lavorano – talvolta anche perché ce lo possiamo permettere: da un lato molte case di proprietà e rendite finanziarie, dall’altro pochi figli, che quindi possono anche campare delle risorse accumulate dai genitori. E se nella rappresentazione di questi ragazzi il documentario pecca a tratti di superficialità, così come nelle analisi abbozzate dalla filosofa Anderson o dal monumento Chomsky, sono invece i singoli ritratti di quei lavoratori agli antipodi ad aprire preziosi varchi di comprensione del presente. Esistenze normali eppure particolari, che raramente entrano nei radar dei nostri editoriali e dei dibattiti televisivi sul mondo del lavoro.

E infatti vorremmo sapere di più del motivatore americano che pare uscito da Magnolia, uno che ripete (abilmente montato) il mantra "I'm so busy, so busy" e sghignazza nervoso quando l'intervistatore gli confessa di avere ben sei settimane di ferie all'anno. Lui ne avrebbe due, ma probabilmente rinuncia anche a quelle, he’s so busy… (vedere qui i primi minuti del documentario, per inquadrare il personaggio). E vorremmo immergerci nelle vite degli impiegati del Kuwait che passano il tempo alla scrivania leggendo romanzi o guardando film - e in alcuni casi finiscono comunque per licenziarsi, vinti dal senso di inutilità e dalla depressione. Così come vorremmo seguire le giornate di quel ragazzo coreano, stremato dalla sovra-occupazione, che a un certo punto attira la vergogna dei genitori col gesto di rivolta più intollerabile per gli standard nazionali: rifiutarsi di lavorare.

Sta qui la piccola-grande lezione per tante inchieste televisive nostrane – del resto After Work è realizzato in coproduzione, tra gli altri, con la tv tedesca, svedese e danese. Uno: allargare lo sguardo oltre i confini nazionali (da noi lo fa quasi solo l’ottimo Presa diretta di Riccardo Iacona) e occuparci del mondo, prima che sia il mondo a occuparsi di noi. Due: non parlare di lavoro soltanto inseguendo i dati sull’occupazione e le polemiche politiche, ma andando a caccia di personaggi sorprendenti, di storie individuali ambivalenti, perché i cliché e gli slogan si superano guardando dentro le contraddizioni. Solo così, forse, riusciremo ad impostare dibattiti sensati sull’intelligenza artificiale e sui robot, che un giorno potrebbero trasformarci tutti in scaldatori di sedie kuwaitiani o in bamboccioni forzati. Perché in fondo, lo accenna nel documentario quell’altro drogato di lavoro che è Elon Musk ma lo diceva già Gustave Flaubert un secolo e mezzo fa: "“La vita non è tollerabile se non attraverso un’occupazione. Quando si abbandona la propria chimera, si muore di tristezza".

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