124 le vittime della «fabbrica» andata a fuoco Oggi, martedì, il Bangladesh osserverà una giornata di lutto ufficiale, per decisione del governo. Ma questo non placa la rabbia dei lavoratori
Migliaia di lavoratori hanno protestato ieri nella zona industriale di Dakha, la capitale del Bangladesh. Chiedevano giustizia per le persone morte nella notte tra sabato e domenica nello spaventoso incendio che ha distrutto una fabbrica di abbigliamento, un palazzone di 8 piani dove non è ben chiaro quante persone fossero rinchiuse a fare gli straordinari. Tanto che il bilancio della tragedia non è neppure chiaro: i pompieri hanno alineato cento cadaveri, avvolti nei teli bianchi, là in quel che resta della fabbrica; altre 12 persone sono morte in ospedale. Ma la stampa locale parla di 124 vittime. Ed è solo un bilancio provvisorio perché tra i feriti molti sono in condizioni gravi.
Oggi, martedì, il Bangladesh osserverà una giornata di lutto ufficiale, per decisione del governo, e la bandiera nazionale sarà a mezz'asta. Ma questo non ha placato la rabbia di tanti lavoratori di Savar, distretto industriale di Dakha, e delle famiglie delle vittime. Ieri dunque erano per le strade, a migliaia; hanno lanciato pietre contro fabriche tessili, fracassato veicoli, bloccato una delle grandi strade che escono dalla città attraverso il distretto industriale. Duecento fabriche della zona sono rimaste chiuse. La rabbia è palpabile, e si capisce bene: non è la prima volta che uno stabilimento tessile va a fuoco nei sobborghi industriali di Dakha, dal 2006 almeno 500 lavoratori sono morti in simili incidenti. Ogni volta le autorità puntano il dito sulle misure di sicurezza mancanti. Ma poi non cambia nulla. E la cronaca si ripete.
Secondo il direttore operativo dei vigili del fuoco di Dhaka, il maggiore Mohammad Mahbub, le fiamme sono state provocate da un corto circuito. Ma a rendere così letale l'incendio, ha aggiunto, è il fatto che mancavano le più elementari misure di sicurezza: niente scale esterne, nessuna via di fuga. E i cancelli sbarrati. Molti sono morti soffocati su per le scale, altri saltando dalle finestre dei piani superiori per sfuggire alle fiamme. «Ci fosse stata almeno un'uscita d'emergenza, le vittime sarebbero state molte di meno», ha dichiarato all'agenzia Ap. D'altra parte gli stessi pompieri hanno faticato a raggiungere l'edificio in fiamme, in quelle vie strette mancava una via di avvicinamento.
L'industria tessile è importante in Bangladesh, secondo esportatore di abbigliamento dopo la Cina - esporta per circa 18 miliardi di dollari l'anno. Occupa circa 3 milioni di lavoratori, in maggioranza donne, e conta circa 4.000 unità produttive: per quanto siano affidabili i dati, in un settore dove abbondano le aziende non registrate. Quello che è chiaro è che sono tra i peggio pagati in Asia, i più restano bloccati sui 37 dollari di salario minimo ufficiale.
La fabbrica bruciata sabato notte, la Tazreen Fashions, ha aperto i battenti nel maggio 2010, dichiara 1500 dipendenti e un fatturato di 35 milioni di dollari l'anno.
Al momento confeziona polo, magliette, felpe, ed è un buon esempio di questo settore: produce abiti su commessa di numerose marche occidentali, tra cui Carrefour, C&A, Gap, Kik e Walmart. Sono catene che servono un mercato di massa in europa e negli Stati uniti, e tengono i prezzi bassi proprio imponendo prezzi bassi ai loro «fornitori»: secondo la rete internazionale Clean Clothes Campaign, «Campagna abiti puliti», che si batte contro il supersfruttamento del lavoro nell'industria tessile globale, questi marchi non hanno fatto nulla per assicurarsi che i loro «fornitori» lavorino in condizioni di sicurezza. Dunque sono corresponsabili della tragedia. «Queste marche sanno da anni che molte delle fabbriche che scelgono per le loro commesse sono trappole mortali», ha commentato Ineke Zeldenrust, coordinatrice internazionale della Clean Clothes: lei parla di «negligenza criminale».
Siddiq Ur Rahman, presidente dell'Associazione degli industriali ed esportatori di abbigliamento, ha dichiarato che i familiari dei defunti riceveranno 100mila taka di risarcimento, circa 900 euro. Per famiglie che hanno perso chi portava a casa un reddito è un insulto.
D'altra parte, Ieri molti dei fagotti bianchi allineati davanti alla fabbrica carbonizzata non avevano ancora un nome. E' la solita storia, ci ha detto Sudharshan Rao Sarde, segretario regionale di IndustriAll, federazione internazionale di sindacati dell'abbigliamento: «L'azienda non tiene neppure dei registri completi, perché molti dei lavoratori sono informali, a termine. Persone invisibili». Rao Sarde parlava così venerdì scorso e l'incendio di Dakha non era ancora scoppiato: lui si riferiva per la verità alle vittime di un altro incendio in fabbrica, quello avvenuto in settembre nei sobborghi di Karachi in Pakistan. La cronaca gli ha dato ragione, la stessa storia si ripete in modo scoraggiante. «Nell'industria tessile sta scivolando sempre più nel settore "informale", aiutata dal fatto che la struttura stessa è cambiata: da un lato hai le marche, dall'altro la base produttiva, e le fabbriche di questa regione competono spremendo sempre di più i lavoratori».
Ieri sera i sobborghi industriali di Dakha erano presidiati dalla polizia. La tensione non cala. La primavera scorsa oltre 300 fabbriche nella capitale del Bangladesh sono state bloccate da un'ondata di scoperi per la richiesta di migliori salari e migliori condizioni di lavoro. La tragedia della Tazreen sarà dura da acettare.
Oggi, martedì, il Bangladesh osserverà una giornata di lutto ufficiale, per decisione del governo, e la bandiera nazionale sarà a mezz'asta. Ma questo non ha placato la rabbia di tanti lavoratori di Savar, distretto industriale di Dakha, e delle famiglie delle vittime. Ieri dunque erano per le strade, a migliaia; hanno lanciato pietre contro fabriche tessili, fracassato veicoli, bloccato una delle grandi strade che escono dalla città attraverso il distretto industriale. Duecento fabriche della zona sono rimaste chiuse. La rabbia è palpabile, e si capisce bene: non è la prima volta che uno stabilimento tessile va a fuoco nei sobborghi industriali di Dakha, dal 2006 almeno 500 lavoratori sono morti in simili incidenti. Ogni volta le autorità puntano il dito sulle misure di sicurezza mancanti. Ma poi non cambia nulla. E la cronaca si ripete.
Secondo il direttore operativo dei vigili del fuoco di Dhaka, il maggiore Mohammad Mahbub, le fiamme sono state provocate da un corto circuito. Ma a rendere così letale l'incendio, ha aggiunto, è il fatto che mancavano le più elementari misure di sicurezza: niente scale esterne, nessuna via di fuga. E i cancelli sbarrati. Molti sono morti soffocati su per le scale, altri saltando dalle finestre dei piani superiori per sfuggire alle fiamme. «Ci fosse stata almeno un'uscita d'emergenza, le vittime sarebbero state molte di meno», ha dichiarato all'agenzia Ap. D'altra parte gli stessi pompieri hanno faticato a raggiungere l'edificio in fiamme, in quelle vie strette mancava una via di avvicinamento.
L'industria tessile è importante in Bangladesh, secondo esportatore di abbigliamento dopo la Cina - esporta per circa 18 miliardi di dollari l'anno. Occupa circa 3 milioni di lavoratori, in maggioranza donne, e conta circa 4.000 unità produttive: per quanto siano affidabili i dati, in un settore dove abbondano le aziende non registrate. Quello che è chiaro è che sono tra i peggio pagati in Asia, i più restano bloccati sui 37 dollari di salario minimo ufficiale.
La fabbrica bruciata sabato notte, la Tazreen Fashions, ha aperto i battenti nel maggio 2010, dichiara 1500 dipendenti e un fatturato di 35 milioni di dollari l'anno.
Al momento confeziona polo, magliette, felpe, ed è un buon esempio di questo settore: produce abiti su commessa di numerose marche occidentali, tra cui Carrefour, C&A, Gap, Kik e Walmart. Sono catene che servono un mercato di massa in europa e negli Stati uniti, e tengono i prezzi bassi proprio imponendo prezzi bassi ai loro «fornitori»: secondo la rete internazionale Clean Clothes Campaign, «Campagna abiti puliti», che si batte contro il supersfruttamento del lavoro nell'industria tessile globale, questi marchi non hanno fatto nulla per assicurarsi che i loro «fornitori» lavorino in condizioni di sicurezza. Dunque sono corresponsabili della tragedia. «Queste marche sanno da anni che molte delle fabbriche che scelgono per le loro commesse sono trappole mortali», ha commentato Ineke Zeldenrust, coordinatrice internazionale della Clean Clothes: lei parla di «negligenza criminale».
Siddiq Ur Rahman, presidente dell'Associazione degli industriali ed esportatori di abbigliamento, ha dichiarato che i familiari dei defunti riceveranno 100mila taka di risarcimento, circa 900 euro. Per famiglie che hanno perso chi portava a casa un reddito è un insulto.
D'altra parte, Ieri molti dei fagotti bianchi allineati davanti alla fabbrica carbonizzata non avevano ancora un nome. E' la solita storia, ci ha detto Sudharshan Rao Sarde, segretario regionale di IndustriAll, federazione internazionale di sindacati dell'abbigliamento: «L'azienda non tiene neppure dei registri completi, perché molti dei lavoratori sono informali, a termine. Persone invisibili». Rao Sarde parlava così venerdì scorso e l'incendio di Dakha non era ancora scoppiato: lui si riferiva per la verità alle vittime di un altro incendio in fabbrica, quello avvenuto in settembre nei sobborghi di Karachi in Pakistan. La cronaca gli ha dato ragione, la stessa storia si ripete in modo scoraggiante. «Nell'industria tessile sta scivolando sempre più nel settore "informale", aiutata dal fatto che la struttura stessa è cambiata: da un lato hai le marche, dall'altro la base produttiva, e le fabbriche di questa regione competono spremendo sempre di più i lavoratori».
Ieri sera i sobborghi industriali di Dakha erano presidiati dalla polizia. La tensione non cala. La primavera scorsa oltre 300 fabbriche nella capitale del Bangladesh sono state bloccate da un'ondata di scoperi per la richiesta di migliori salari e migliori condizioni di lavoro. La tragedia della Tazreen sarà dura da acettare.
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