Le proteste di piazza in Brasile hanno sorpreso solo chi ragiona ancora con il vecchio modello che identifica crescita del pil e felicità.
Dal paradosso di Easterlin in poi abbiamo da tempo scoperto che le due cose non vanno di pari passo. Ci possono essere paesi come il nostro dove sia la dinamica del reddito che quella della soddisfazione di vita scendono. Ma anche molti casi come quelli degli Stati Uniti del dopoguerra, dei paesi della primavera araba e appunto del Brasile dove il PIl cresce ma la soddisfazione di vita non segue pari passo. Se non è opportuno massimizzare la felicità è evidente che i dati sulla soddisfazione di vita vengono presi sempre più sul serio da politici ed economisti. Il disallineamento tra PIl e soddisfazione di vita va infatti interpretato come una spia di un disagio che deve spingerci ad indagare dove sono le radici del problema. E’ il motivo più serio per il quale non possiamo trascurare gli indicatori di felicità è che, come le proteste di massa in Brasile dimostrano, l’infelicità retroagisce su fatti concreti e non psicologici come la salute, la pace sociale, la coesione nazionale.
E’ acclarato che la felicità dipende dallo scarto tra realizzazioni ed aspettative. Può accadere nei paesi emergenti che la crescita economica sia sopravanzata da un aumento ancora maggiore delle aspettative alimentate dal confronto con il mondo dei paesi più ricchi. E’ anche ben noto che lo sviluppo nella globalizzazione avviene con diseguaglianza crescente e che la diseguaglianza è uno dei maggiori motori dell’inssoddisfazione, soprattutto quando non mediata da buone aspettative di mobilità sociale. E’ altresi risaputo che la felicità declina quando la qualità della vita di relazioni peggiora e quando i beni di confort che attutiscono le nostre virtù sopravanzano i beni di stimolo che sono più sfidanti e contribuiscono di più alla qualità della nostra vita.
Ma il problema strutturale dei nostri tempi, come ben noto, è il divario di costo del lavoro tra paesi ricchi e paesi poveri e la presenza di una massa di diseredati, di un esercito di riserva disposto a lavorare a un dollaro al giorno. Quell’esercito di riserva è assieme il nostro privilegio e la nostra dannazione. E’ quello che ci fa trovare le magliette a due euro sulle bancarelle ma anche quello che rende sempre meno sostenibili le nostre conquiste di welfare e di qualità del lavoro. Il problema delle proteste in Brasile non sono le proteste in Brasile ma la mancata protesta in tutti quegli altri paesi nei quali quest’esercito di riserva accetta silenziosamente la propria condizione.
Il nostro futuro e il nostro destino si gioca proprio sulla dinamica dei divari di costo del lavoro. Stiamo mettendo in atto processi che producono un riequilibrio verso l’alto o verso il basso dei salari ? Stiamo aiutando i dannati del Rana Plaza (l’edificio crollato in Bangladesh dove sono morte più di mille persone) ad arrivare verso i nostri standard di vita o stiamo precipitando noi verso le modalità di lavoro del Rana Plaza per una malintesa interpretazione del concetto di competitività che identifichiamo nella riduzione del costo del lavoro ?
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