Aveva ragione Alberto Ronchey, quando parlava di «fattore K» riferendosi al Pci. La presenza in Italia del più forte partito comunista d’Occidente, anche se assai meno chiuso e settario di altre consimili forze politiche, ha paralizzato il sistema e ha danneggiato soprattutto la sinistra, condannandola a un’eterna situazione di minorità. Perché in una democrazia liberale, come osserva Marco Gervasoni nel saggio La guerra delle sinistre (Marsilio), un’alleanza di governo solida tra comunisti e socialisti «è sistematicamente impossibile».
Chi ancora coltiva il mito dei fronti popolari antifascisti non sarà d’accordo, ma il primo a saperlo era Enrico Berlinguer, che infatti non propose mai un governo della sinistra unita, ma perseguì l’ipotesi del «compromesso storico» con le masse cattoliche. Si rendeva conto dei problemi derivanti dalla divisione del mondo in blocchi, come pure del fatto che era impensabile avviare il superamento del capitalismo con il 51 per cento dei voti.
Agli antipodi si poneva il disegno di Bettino Craxi, che invece apprezzava l’economia di mercato e intendeva costruire un’alternativa di governo a guida socialista, anche attraverso una riforma presidenziale della Costituzione, ma soprattutto mediante la riduzione del Pci e delle forze laiche in uno stato di completa subalternità nei riguardi del Psi.
Lo scontro era inevitabile e fu durissimo, come illustra efficacemente Gervasoni, ma non ebbe vincitori. La «terza via» cui aspirava Berlinguer era impraticabile, poiché non vi era proprio nulla da salvare nell’esperienza nata dalla rivoluzione bolscevica, ma l’eredità del segretario sardo continuò a pesare sul Pci-Pds, perché lo indusse a inseguire i movimentismi più confusi e rese molto faticoso il suo approdo alla socialdemocrazia. Su questo l’analisi di Gervasoni è spietata e inappuntabile.
Meno chiare emergono dal libro le ragioni che portarono al naufragio di Craxi, in particolare la contraddizione consistente nel voler rompere il blocco del sistema consociativo, fondato sul duopolio Dc-Pci, avvalendosi del potere di coalizione esorbitante che proprio quell’assetto patologico attribuiva a una forza minoritaria come il Psi, che non andò mai oltre il 15 per cento dei voti. Era un progetto troppo ambizioso: il piglio disinvolto e decisionista con cui Craxi lo perseguì, sfruttando la sua posizione di ago della bilancia, finì per attirare su di lui, anche al di là dei suoi demeriti, la reazione dell’opinione pubblica contro la partitocrazia. Un’ondata furibonda che poi paradossalmente avrebbe favorito l’ascesa politica dell’imprenditore, Silvio Berlusconi, cui proprio il Psi aveva garantito il monopolio della televisione commerciale.
Del resto, se Berlinguer si era illuso che il capitalismo fosse vicino al capolinea, Craxi non capì che l’accumulazione del debito pubblico era destinata a presentare un conto salatissimo all’Italia. La retorica pauperista del primo era deleteria, ma anche l’ottimismo di maniera del secondo sarebbe stato rudemente smentito. Eppure erano leader di razza, dotati di una visione politica di cui nella situazione attuale non si vede l’ombra. La storia non torna indietro, ma viene quasi da rimpiangerli.
Marco Gervasoni, La guerra delle sinistre. Socialisti e comunisti dal ’68 a Tangentopoli, Marsilio, pagine 203, € 19
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