sabato 23 novembre 2013

TEOLOGIA E POLITICA NELLA STORIA OCCIDENTALE. M. PACIONI, Genealogia di una «forza» che può contenere e dissolvere gli spiriti animali del mercato, IL MANIFESTO, 21 novembre 2013

Dall'editto di Costantino all'analisi dei testi contemporanei che hanno affrontato le metamorfosi della sovranità
Politica e religione. Diverse sono le soluzioni in cui si articolano. Uguale è che in ogni civiltà esse sembrano sempre venire a patti. È così anche con il cristianesimo? Oppure no, proprio il cristianesimo per la sua natura teologica escluderebbe la commistione con la politica benché storicamente tale commistione sia più volte avvenuta? Attraverso queste domande si sviluppa il libro di Massimo Borghesi, Critica della teologia politica. Da Agostino a Peterson: la fine dell'era costantiniana (Marietti 1820, pp. 352, euro 28). Borghesi parte da lontano. Ben oltre il famoso saggio del 1922 di Carl Schmitt nel quale il futuro teorico del Führerprinzip stabiliva gli elementi che avrebbero caratterizzato il dibattito fra teologia e politica. Borghesi parte dall'imperatore Costantino, dall'editto di Milano del 313 che proclama la tolleranza per il cristianesimo e altre confessioni religiose. Tolleranza che non vuol dire però religione di stato. Il cristianesimo diventa tale soltanto qualche decennio dopo, nel 380 con l'editto di Tessalonica promulgato dall'imperatore Teodosio. È da qui che il cristianesimo si istituzionalizza e si creano i presupposti perché teologia e politica possano innestarsi l'una nell'altra.


È importante che Borghesi si riferisca anzitutto alla storia per comprendere come il piano teologico e quello politico si articolano. Con Costantino e Teodosio, Borghesi ci ricorda che è per primo il politico a muoversi in direzione del teologico. Il cristianesimo era nato e si era diffuso perseguitato dalla politica. Tutto cambia nel momento in cui la sua posizione si ufficializza. È soltanto a partire da li che la chiesa può fare a propria volta lo stesso gioco del politico benché a parti rovesciate. E tuttavia, come anche la continua lotta per le investiture nel medioevo sta a dimostrare, non si è mai realizzata una totale identità fra le due componenti. Si sono sempre prodotti degli scarti che la teoria politica della sovranità dell'età tardo-rinascimentale e barocca e quella nata come reazione alla rivoluzione francese - De Maistre, De Bonald e Donoso Cortés - si sono impegnate a colmare utilizzando i parametri della secolarizzazione e sacralizzazione, fino appunto a Schmitt con il quale la questione della sovranità di antico regime si volge al totalitarismo.
Che per Borghesi la teologia politica cominci molto prima che sul tema si inizi a teorizzare, il fatto che Schmitt non compaia nel titolo del libro, ma venga menzionato Peterson e cioè uno dei primi e più resistenti avversari di Schmitt, ci fa capire subito il punto di vista dell'autore: il cristianesimo è dottrinalmente incompatibile con la teologia politica. I pur molti compromessi che storicamente sono avvenuti fra teologia e politica sono stati il prodotto di un'ideologia e non il portato di una ricerca che voleva trovare l'essenza del «politico». È a causa della sua incompatibilità con il politico che per Borghesi nel cristianesimo, a differenza della tradizione pagana, dell'ebraismo e dell'islamismo, non si dovrebbe parlare di teologia politica, ma al massimo di teologiadella politica. Che nel cristianesimo i due ambiti rimangano separati appare già dal passo evangelico «date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio». Il più rigoroso interprete di queste parole di Gesù secondo Borghesi, colui al quale dopo Costantino e Teodosio si offre l'occasione storica per tornare a pensare il rapporto tra Cesare e Dio, è il Sant'Agostino del De Civitate Dei. Scritto a ridosso del sacco di Roma e dello shock che tale evento aveva provocato, il libro di Agostino vuole anche mostrare come la città di Dio non può mai essere trattenuta nei limiti della città terrena. La città di Dio non può diventare Il potere che frena (Adelphi) la città degli uomini, come vuole Massimo Cacciari e come in modi analoghi voleva già lo Schmitt interprete del katéchon cioè della «forza che trattiene» di San Paolo. Anzi, una costitutiva mancanza di controllo della città di Dio sulla città degli uomini è ciò chesecondo Sant'Agostino caratterizza il rapporto tra le due città. Teologia e politica sono divise, non coincidono.
Svolgendo in parte le argomentazioni di Erik Peterson, più tardi altri critici come Maritain e soprattutto Maier giungono a vedere nella divisione fra teologico e politico che caratterizza il cristianesimo sin dalle origini, la base della divisione dei poteridella democrazia moderna. Negli stessi anni '60 in cui Maier sviluppa la sua teoria, il legame fra cristianesimo e democrazia è inoltre ribadito dal Concilio Vaticano II. In tal senso per Borghesi, il Vaticano II non inaugura un'era nuova nei rapporti fra chiesa e potere politico, ma un ritorno al cristianesimo prima di Teodosio.
Negli stessi anni '60 l a teologia politica riguadagna la scena come è evidente anche dalla pubblicazione del volume di Schmitt Teologia politica II e dallo scambio epistolare che quest'ultimo ha con uno dei maggiori studiosi della secolarizzazione. I nuovi teorici della teologia politica continuano ad avere come interlocutore privilegiato proprio Schmitt benché corretto o intrecciato all'escatologia ebraica di Walter Benjamin. Proprio quest'ultimo è una delle novità più significative del fronte teologico-politico della seconda metà del Novecento. Invece, il versante più interessato a definire l'orizzonte della divisione teologico-politica quale fonte cristiana della democrazia vede tra i suoi protagonisti, fra gli altri,l'allora cardinale Ratzinger, qui tutt'altro che conservatore o oltransista.
Sotto il segno della divisione sembra rimanere anche un altro testo che affronta questioni teologico-politiche e cioè il recente contributo di Giorgio Agamben, Pilato e Gesù (Nottetempo, pp. 66, euro 6) nel quale il piano della giustizia e quello della salvezza non si subordinano l'uno all'altro ma, come suggerisce la grammatica del titolo del libro, si dispongono in coordinazionedando vita ad una relazione paradossale: un «escludersi» e «chiamarsi a vicenda»nel quale Agamben vede non un'«eccezione» da risolvere nell'autoritarismo come per Schmitt, ma l'esempio di come il politico si articola nel tempo.

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