Pubblichiamo un estratto del testo che compare nel volume «Manifesto per una sinistra cosmopolita», edito da Mimesis, a cura di Luca Taddio. Una dialettica tra «homo oeconomicus» e «homo politicus»
Il secolo che ci siamo ormai lasciati alle spalle si è concluso con la perentoria convinzione per cui, in seguito alla vittoria del liberalismo sul socialismo, l'Occidente, e con esso il mondo intero, ha potuto finalmente abbracciare la libertà. Sulla base di questo assunto, alle varie sinistre che in maniera diversa si richiamavano alla tradizione socialista o comunista, non rimaneva che spogliarsi di panni ormai anacronistici, oltre che fallimentari, per indossare quelli lindi e inconsunti del liberalismo.
Ciò è stato in buona parte fatto, seppur con le specifiche diversità del caso, ma si è trattato di un'operazione che, oltre che fondarsi su una premessa sbagliata, ha provocato l'estinzione di alcuni valori fondanti della sinistra. Valori che sono stati necessari alla stessa tradizione liberale, che infatti li ha saputi far propri, ma che soprattutto, mai come oggi possono tornare indispensabili, se opportunamente aggiornati, in un'epoca in cui l'economia sembra esercitare un potere totalitario sul mondo umano.
Certamente un merito storico del liberalismo è stato quello di saper fare proprie le istanze democratiche che non gli sono originariamente appartenute, mostrando una duttilità e una capacità di trasformazione e adattamento ai grandi mutamenti della storia che le altre correnti filosofico-politiche non sono riuscite a mettere in campo.
A cominciare proprio dal marxismo. Ma è fondamentale comprendere che questa duttilità del liberalismo è stata resa possibile da un conflitto dialettico e serrato con la tradizione politica avversa, che ha visto il liberalismo stesso protagonista di una «frattura» al proprio interno, iniziata già a cavallo tra il XIX e il XX secolo con autori come Hobhouse e Dewey e proseguita fino ai giorni nostri con pensatori come Rawls e Popper. Figure che hanno saputo e voluto riconoscere l'apporto del pensiero della sinistra nel delineare un'idea di libertà in grado di essere declinata collettivamente oltre che nella sfera individuale.
È proprio John Rawls a marcare questa frattura laddove, nella sua opera più celebre, propone «una concezione della giustizia che annulli gli accidenti della dotazione naturale e la contingenza delle circostanze sociali», poiché «l'arbitrio presente nel mondo deve essere corretto».
Lo scopo del filosofo americano è chiaro: affermare il principio dell'«equa uguaglianza delle opportunità» attraverso la costruzione di un «sistema di giustizia di sfondo» che garantisca la «mobilità sociale» anche ai meno avvantaggiati.
Ma già il sociologo britannico Tawney, in un saggio del 1931 dal titolo significativo («Equality»), sosteneva che la «parità delle condizioni è effettivamente reale soltanto nella misura in cui ogni membro di una comunità, quali che siano la nascita, il mestiere o la posizione sociale, possiede in maniera formale e sostanziale delle chances uguali di utilizzare completamente i propri talenti naturali, fisici, caratteriali e intellettivi». Né il buon senso degli autori liberali più realisti mutava di segno se spostiamo la nostra analisi su un piano più prettamente economico. Basti pensare a Keynes, autore dimenticato o addirittura maledetto ai giorni nostri, che nel bel mezzo della crisi più grave del sistema capitalistico (prima dei nostri giorni) scriveva nella sua opera principale che «la teoria classica» (quella del liberismo sfrenato) rappresenta «il modo nel quale vorremmo che la nostra economia si comportasse, ma supporre che di fatto essa si comporti così, significa ritenere inesistenti le grandi difficoltà cui ci troviamo di fronte». Tali considerazioni portano il teorico del New Deal a concludere che «l'intervento dello stato», per esempio per promuovere e finanziare nuovi investimenti, costituisce «l'unica via di uscita da una depressione prolungata e forse interminabile».
È un dato spesso rimosso dalla storiografia tradizionale, quello per cui questa frattura interna alla tradizione liberale inizia proprio nel paese che ha dato i natali al liberalismo, cioè l'Inghilterra, ma si tratta di un aspetto che lo ha caratterizzato per tutto il Novecento, rendendo possibili di fatto quelle conquiste in senso democratico e sociale di fronte alle quali il liberalismo tradizionale si è opposto con tutte le forze fino a che ha potuto.
Uno dei casi più emblematici, a tal proposito è quello di Karl Popper, che, malgrado venga rubricato all'interno di un liberalismo monolitico e indistinto, rappresentava a pieno titolo questo secondo liberalismo uscito dalla frattura di cui abbiamo detto, da una parte riconoscendo al welfare state un ruolo fondamentale nell'aver contribuito a combattere fenomeni come la povertà, la disoccupazione, le rigide differenze di classe etc.; dall'altra, pur mettendo in guardia dai rischi di un'ipertrofia del ruolo dello Stato (definito «male necessario»), e prevedendo una serie di limitazioni, affermava espressamente che «non bisogna permettere al potere economico di dominare su quello politico e anzi, se necessario, il potere economico deve essere combattuto e posto sotto il controllo di quello politico».
Quello della conquista della libertà, una conquista ancora parziale e che vede esclusa una larga parte dell'umanità, è stato un cammino tortuoso e conflittuale, in cui la sinistra ha saputo recitare un ruolo decisivo fino a quando si è fatta portatrice di istanze altre, che sapessero contrastare e integrare il pensiero unico di una libertà fondata soltanto sull'individuo egoista e competitivo all'interno di un campo impersonale ed esclusivo come il mercato.
In un'epoca come la nostra, poi, in cui è tornato a recitare un ruolo preponderante un tipo di liberalismo maggiormente ispirato alla tradizione classica, per cui la centralità dell'economia e la pacifica accettazione delle disuguaglianze sociali la fanno padroni, può trovare spazio una sinistra seria e non disposta a cancellare il meglio della propria tradizione.
Una sinistra che sia in grado di rivalutare, opportunamente aggiornati, quei suoi capisaldi che pur hanno contribuito in maniera fondamentale a disegnare il quadro delle nostre democrazie occidentali, influenzando la stessa teoria liberale fino al punto di condurla a una frattura virtuosa.
Una sinistra, insomma, disposta a concettualizzare una rinnovata idea di libertà da declinarsi anzitutto nella lotta contro una distribuzione iniqua e squilibrata dei diritti come delle opportunità e dei meriti effettivi degli individui. La libertà non è un risultato da considerare assodato, non può essere un punto di partenza su cui smettere di esercitare la fatica della rielaborazione.
Se la libertà dei moderni ha significato l'esplosione delle possibilità per l'homo oeconomicus, la libertà dei contemporanei deve partire da una ritrovata centralità dell'homo politicus, soprattutto in un'epoca in cui le dinamiche di funzionamento e gli scopi ultimi delle leggi economiche non coincidono più con quelle dell'essere umano, che ne esce anzi per larga parte strumentalizzato e schiacciato. Qui e ora si rivela indispensabile un controcanto serio e pensato, in un mondo globalizzato che ha espunto dalla propria agenda la questione sociale, sottomettendo la ragione politica (e umana) alla lex mercatoria.
Ciò è stato in buona parte fatto, seppur con le specifiche diversità del caso, ma si è trattato di un'operazione che, oltre che fondarsi su una premessa sbagliata, ha provocato l'estinzione di alcuni valori fondanti della sinistra. Valori che sono stati necessari alla stessa tradizione liberale, che infatti li ha saputi far propri, ma che soprattutto, mai come oggi possono tornare indispensabili, se opportunamente aggiornati, in un'epoca in cui l'economia sembra esercitare un potere totalitario sul mondo umano.
Certamente un merito storico del liberalismo è stato quello di saper fare proprie le istanze democratiche che non gli sono originariamente appartenute, mostrando una duttilità e una capacità di trasformazione e adattamento ai grandi mutamenti della storia che le altre correnti filosofico-politiche non sono riuscite a mettere in campo.
A cominciare proprio dal marxismo. Ma è fondamentale comprendere che questa duttilità del liberalismo è stata resa possibile da un conflitto dialettico e serrato con la tradizione politica avversa, che ha visto il liberalismo stesso protagonista di una «frattura» al proprio interno, iniziata già a cavallo tra il XIX e il XX secolo con autori come Hobhouse e Dewey e proseguita fino ai giorni nostri con pensatori come Rawls e Popper. Figure che hanno saputo e voluto riconoscere l'apporto del pensiero della sinistra nel delineare un'idea di libertà in grado di essere declinata collettivamente oltre che nella sfera individuale.
È proprio John Rawls a marcare questa frattura laddove, nella sua opera più celebre, propone «una concezione della giustizia che annulli gli accidenti della dotazione naturale e la contingenza delle circostanze sociali», poiché «l'arbitrio presente nel mondo deve essere corretto».
Lo scopo del filosofo americano è chiaro: affermare il principio dell'«equa uguaglianza delle opportunità» attraverso la costruzione di un «sistema di giustizia di sfondo» che garantisca la «mobilità sociale» anche ai meno avvantaggiati.
Ma già il sociologo britannico Tawney, in un saggio del 1931 dal titolo significativo («Equality»), sosteneva che la «parità delle condizioni è effettivamente reale soltanto nella misura in cui ogni membro di una comunità, quali che siano la nascita, il mestiere o la posizione sociale, possiede in maniera formale e sostanziale delle chances uguali di utilizzare completamente i propri talenti naturali, fisici, caratteriali e intellettivi». Né il buon senso degli autori liberali più realisti mutava di segno se spostiamo la nostra analisi su un piano più prettamente economico. Basti pensare a Keynes, autore dimenticato o addirittura maledetto ai giorni nostri, che nel bel mezzo della crisi più grave del sistema capitalistico (prima dei nostri giorni) scriveva nella sua opera principale che «la teoria classica» (quella del liberismo sfrenato) rappresenta «il modo nel quale vorremmo che la nostra economia si comportasse, ma supporre che di fatto essa si comporti così, significa ritenere inesistenti le grandi difficoltà cui ci troviamo di fronte». Tali considerazioni portano il teorico del New Deal a concludere che «l'intervento dello stato», per esempio per promuovere e finanziare nuovi investimenti, costituisce «l'unica via di uscita da una depressione prolungata e forse interminabile».
È un dato spesso rimosso dalla storiografia tradizionale, quello per cui questa frattura interna alla tradizione liberale inizia proprio nel paese che ha dato i natali al liberalismo, cioè l'Inghilterra, ma si tratta di un aspetto che lo ha caratterizzato per tutto il Novecento, rendendo possibili di fatto quelle conquiste in senso democratico e sociale di fronte alle quali il liberalismo tradizionale si è opposto con tutte le forze fino a che ha potuto.
Uno dei casi più emblematici, a tal proposito è quello di Karl Popper, che, malgrado venga rubricato all'interno di un liberalismo monolitico e indistinto, rappresentava a pieno titolo questo secondo liberalismo uscito dalla frattura di cui abbiamo detto, da una parte riconoscendo al welfare state un ruolo fondamentale nell'aver contribuito a combattere fenomeni come la povertà, la disoccupazione, le rigide differenze di classe etc.; dall'altra, pur mettendo in guardia dai rischi di un'ipertrofia del ruolo dello Stato (definito «male necessario»), e prevedendo una serie di limitazioni, affermava espressamente che «non bisogna permettere al potere economico di dominare su quello politico e anzi, se necessario, il potere economico deve essere combattuto e posto sotto il controllo di quello politico».
Quello della conquista della libertà, una conquista ancora parziale e che vede esclusa una larga parte dell'umanità, è stato un cammino tortuoso e conflittuale, in cui la sinistra ha saputo recitare un ruolo decisivo fino a quando si è fatta portatrice di istanze altre, che sapessero contrastare e integrare il pensiero unico di una libertà fondata soltanto sull'individuo egoista e competitivo all'interno di un campo impersonale ed esclusivo come il mercato.
In un'epoca come la nostra, poi, in cui è tornato a recitare un ruolo preponderante un tipo di liberalismo maggiormente ispirato alla tradizione classica, per cui la centralità dell'economia e la pacifica accettazione delle disuguaglianze sociali la fanno padroni, può trovare spazio una sinistra seria e non disposta a cancellare il meglio della propria tradizione.
Una sinistra che sia in grado di rivalutare, opportunamente aggiornati, quei suoi capisaldi che pur hanno contribuito in maniera fondamentale a disegnare il quadro delle nostre democrazie occidentali, influenzando la stessa teoria liberale fino al punto di condurla a una frattura virtuosa.
Una sinistra, insomma, disposta a concettualizzare una rinnovata idea di libertà da declinarsi anzitutto nella lotta contro una distribuzione iniqua e squilibrata dei diritti come delle opportunità e dei meriti effettivi degli individui. La libertà non è un risultato da considerare assodato, non può essere un punto di partenza su cui smettere di esercitare la fatica della rielaborazione.
Se la libertà dei moderni ha significato l'esplosione delle possibilità per l'homo oeconomicus, la libertà dei contemporanei deve partire da una ritrovata centralità dell'homo politicus, soprattutto in un'epoca in cui le dinamiche di funzionamento e gli scopi ultimi delle leggi economiche non coincidono più con quelle dell'essere umano, che ne esce anzi per larga parte strumentalizzato e schiacciato. Qui e ora si rivela indispensabile un controcanto serio e pensato, in un mondo globalizzato che ha espunto dalla propria agenda la questione sociale, sottomettendo la ragione politica (e umana) alla lex mercatoria.
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