L'intervento del
giuslavorista Piero Ichino sul Corriere
Caro direttore, fin dall'inizio, in primo grado, del processo
contro gli appartenenti alle «nuove Brigate rosse», che si è concluso ieri con
la seconda sentenza della Corte d'Assise d'Appello di Milano, ho proposto a
ciascuno degli imputati di rinunciare alla mia costituzione in giudizio contro
di loro, in cambio del puro e semplice riconoscimento del mio diritto a non
essere aggredito.
Ieri, durante l'ultima udienza del processo, ho ripetuto quella
mia offerta di conciliazione e di dialogo. La risposta del loro leader, Alfredo
Davanzo, è stata: «Questo signore - che sarei io - rappresenta il capitalismo,
lui è l'esecutore di questo sistema e noi eseguiremo il dovere di sbarazzarci
di questo sistema». Dove «sbarazzarci» è evidentemente un eufemismo, mentre
l'accento sinistro della frase sta tutto in quell'«eseguiremo». In ogni caso,
la risposta alla mia proposta è stata chiara: «non ti riconosciamo il diritto a
non essere aggredito». E la stessa minaccia ha numerosissimi destinatari,
poiché di «esecutori di questo sistema» in giro per l'Italia ce ne sono
evidentemente molti altri.
A questo punto qualcuno potrebbe sorprendersi che il processo si
sia poi concluso con una sentenza che riconosce gli imputati colpevoli, sì, di
associazione sovversiva (articolo 270 del codice penale), ma non di terrorismo
(articolo 270-bis). Ma chi è addentro nelle cose della giustizia si è sorpreso
un po' meno di questo esito. È plausibile, infatti, che con questa decisione la
Corte d'Assise d'Appello abbia inteso conformarsi alla sentenza con cui il 2
aprile scorso la Cassazione aveva annullato la prima decisione, del 2010, della
stessa Corte d'Assise, nello stesso processo, nella quale invece le finalità di
terrorismo erano state riconosciute. In sostanza, la Cassazione imputava alla
Corte milanese di non avere sufficientemente individuato e dimostrato, nel
comportamento di questi brigatisti, «il proposito di intimidire indiscriminatamente
la popolazione, l'intenzione di esercitare costrizione sui pubblici poteri»,
oppure «la volontà di destabilizzare» o addirittura «distruggere gli assetti
istituzionali del Paese». Dunque, progettare un attentato alla sede di un
grande quotidiano nazionale e un agguato mirato a ferire o uccidere una persona
qualsiasi, assunta quale «rappresentante del capitalismo», secondo questa nuova
giurisprudenza, non è «terrorismo». Resta il problema di capire che cosa,
allora, secondo la Corte di Cassazione, sia «terrorismo».
Se non è «terroristico» quel progetto dei nuovi brigatisti,
ancor meno può qualificarsi come tale quello degli anarchici che a Genova hanno
ferito il dirigente dell'Ansaldo di Genova Roberto Adinolfi. Questi ultimi
infatti confessano di non credere nel valore politico della loro azione
violenta, ma di farlo soltanto per motivi esistenziali e di
auto-gratificazione: «impugnando la pistola abbiamo solo fatto un passo in più
per uscire dall'alienazione»; «con una certa gradevolezza abbiamo armato le
nostre mani, con piacere abbiamo riempito il caricatore scegliere e seguire
l'obiettivo, coordinare mente e mano sono stati un passaggio obbligato, la
logica conseguenza di un'idea di giustizia, il rischio di una scelta e nello
stesso tempo un confluire di sensazioni piacevoli»; «non cerchiamo consenso, ma
complicità». Qui c'è principalmente la soddisfazione di una qualche pulsione
sadica, ma con un'esplicita rinuncia a perseguire concretamente e credibilmente
effetti politici generali. Gli attentatori di Genova mostrano una piena
consapevolezza della propria incapacità di «esercitare costrizione sui pubblici
poteri» o, tanto meno, di «destabilizzare o addirittura distruggere gli assetti
istituzionali del Paese».
Ancor meno, probabilmente, potrà ravvisarsi un
siffatto intendimento politico nell'attentato di Brindisi contro un istituto
scolastico, dal momento che chi l'ha compiuto non lo ha in alcun modo
esplicitato: come potrebbe «destabilizzare o distruggere gli assetti
istituzionali del Paese» un attentatore che neppure fa conoscere all'opinione
pubblica tale suo preciso intendimento? Neppure lì, dunque, può essersi
trattato di terrorismo. A ben vedere, questo è un bene per il Paese: tra le
tante piaghe da curare, almeno questa del terrorismo non ce l'abbiamo più.
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