La guerra e il nazionalismo alle origini delle Olimpiadi. Il barone de Coubertin voleva in realtà dare una risposta ai tedeschi che nel 1870 avevano costretto la Francia alla resa
«C’era un tempo che il popolo eleggeva generali, capi di stato, comandanti di legioni: ma ora si è ritirato nel guscio, due cose sole desidera: pane e giochi». Così il poeta latino Giovenale, sempre attuale. Basta guardarsi intorno: la crisi finanziaria è dimenticata, le folle del mondo intero sono incollate davanti agli schermi televisivi per seguire i giochi delle olimpiadi di Londra. Ma da dove arriva nel mondo moderno questo mito così potente? Qualche risposta si trova nell’ottimo libro – I giochi Olimpici: i primi mille anni – di due autori già docenti di università inglesi, Moses I. Finley e H.W. Pleket, che risale al 1976 ma è tuttora fresco e stimolante (la traduzione italiana è riproposta ora da Res Gestae). Ne caverà molti motivi di interesse e di riflessione sull’ideologia ufficiale dei giochi e sulla loro realtà, quella antica e quella moderna. Qui ne ricordiamo un solo punto: il barone cattolico francese Pierre de Coubertin concepì il progetto di dare corpo al mito di Olimpia sotto l’impressione di una duplice sconfitta francese per opera dei tedeschi: tedesco il professor Curtius di Berlino scopritore del sito di Olimpia dove aveva fallito una spedizione francese; tedesco l’esercito della “guerra lampo” che il 1 settembre 1870 condusse la Francia alla resa e a quella durevole umiliazione che doveva cercare una rivincita con la prima guerra mondiale. La guerra, dunque, e il nazionalismo ebbero una parte importante nella reinvenzione di quella antica competizione pacifica di giovani disarmati che aveva già suscitato le ironie di Luciano di Samosata. Rinascendo, l’ideale delle Olimpiadi trasse ispirazione dal misto di cultura classica e di competizione sportiva delle scuole dell’Inghilterra imperiale: fu a questo paese che de Coubertin drizzò lo sguardo. Era qui che nel 1850 il dottor William Penny Brookes aveva avuto l’idea di organizzare dei moderni giochi olimpionici. Erano gli anni in cui l’Inghilterra dominava il mondo intero: a Londra nel 1851 fu organizzata la prima esposizione universale. Nella sala di lettura del British Museum un esule tedesco ammiratore di Darwin, un certo Karl Marx, studiava e scriveva approfittando della ricchezza di sapere concentrato in quella biblioteca, organizzata e diretta da un altro esule, l’italiano Antonio Panizzi. Lo storico Hippolyte Taine invitò i francesi a guardare alla cultura delle scuole inglesi e all’importanza che vi si dava all’esercizio fisico: un apprendistato valido, secondo lui, tanto per l’obbedienza che per il comando. Il che funziona ancora oggi, in un mondo dove le scuole e le università contribuiscono in modo decisivo a formare atleti per le Olimpiadi, diventate una gigantesca impresa politica e commerciale. Il bilancio alla fine si farà col conteggio delle medaglie. Oggi a Londra negli studi di serissimi studiosi di economia si svolge un gioco ignoto al grande pubblico: quello di prevedere quale sarà il Paese che ne prenderà di più. Di fatto, questa sfida simbolica per il predominio ha impegnato sempre le maggiori potenze del mondo moderno, con grandi investimenti nelle istituzioni scolastiche e universitarie e nell’addestramento fisico nelle caserme. La scuola dunque, bene o male, è stata la madre delle Olimpiadi moderne.
E l’Italia? Uno sguardo alla nostra realtà ci dice che, medaglie a parte (ci sono sempre dei Dorando Petri da noi), siamo rimasti ai margini di questa tradizione. Qui scuole e università non hanno mai fatto molto per stimolare l’esercizio fisico: e anche per quello intellettuale stanno piuttosto regredendo. Chi va in una qualunque città del mondo moderno trova biblioteche sempre aperte. In Italia d’agosto si chiude: i diritti di chi studia non valgono nulla davanti alle ferie del personale e alla povertà degli investimenti. Scrivo queste note da una sede antica degli studi – Pisa – dove la biblioteca più antica e prestigiosa è chiusa e minacciata dalla dispersione del suo patrimonio. I poteri locali hanno cose più serie a cui pensare: è divampata la guerra con la confinante Livorno sulla sorte delle due Province. C’è in gioco un patrimonio di poltrone che il decreto del governo obbliga a fondere.
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