mercoledì 8 agosto 2012

GIOCHI OLIMPICI E IDEOLOGIE POLITICHE. 2. RIOTTA G., Quelli che odiano i giochi: "Sono l'oppio dei popoli", LA STAMPA, 6 agosto 2012

La crociata di un critico francese contro lo sport
Ecco perché si sbaglia

 
Al Villaggio olimpico c’è una minuscola biblioteca e sì, c’è una copia di «50 sfumature di grigio», best seller del Mc-porno. Non ho invece trovato «Sport barbaro», saggio del critico francese Marc Perelman diventato Manuale di chi Odia le Olimpiadi (in italiano da Medusa). Perelman, ultimo degli intellettuali della Rive Gauche perennemente irritati, crede che i Giochi Olimpici, la ragazza Jessica Rossi che impallina piattelli e pensa ai terremotati, le stoccate alla finale di scherma, Bolt&Blake dei 100 metri, non sono passione sportiva, tifo se volete con una bandierina in mano. Sono il trionfo del «capitalismo globale degli sponsor». Se qui a Londra Marx scriveva «la religione è l’oppio dei popoli», per Perelman è peggio, «Lo sport è l’oppio dei popoli… religione del XXI secolo». I popoli devono essere peggiorati agli occhi dei critici francesi o di Beppe Grillo (ieri ha denunciato i Giochi nel suo blog): se prima serviva Dio per drogarli, oggi basta il flop della Pellegrini.

Ho finito il libro di Perelman nel più tranquillo bar del Villaggio, non ancora scoperto dalle masse di atleti e reporter che si aggirano tra la gente che ha avuto la fortuna di comprare un biglietto online o riceverlo in regalo dagli sponsor. Avevo cominciato a leggerlo a Wimbledon, aspettando che Serena Williams facesse a polpette la Sharapova e che Murray finalmente battesse Federer tra i prati giallastri

dell’All England Lawn Tennis Club, scozzese a Londra. Ho continuato negli intervalli della pallavolo, BulgariaArgentina, Serbia-Brasile. Ho imparato che Olocausto e Seconda Guerra mondiale sono scoppiate «per colpa» dei Giochi Olimpici del 1936 «che trasportarono la gioventù al fronte, come una nuvola porta tempesta».

Mentre un atleta americano del fondo, magro come un grillo e senza medaglia, mi raccontava dell’emozione di trovarsi alle Olimpiadi, Perelman mi spiegava che «bisogna abrogare lo sport», diventato «il solo progetto di una società senza progetti» che droga il popolo con «l’infortunio al ginocchio di un atleta… o la vita sentimentale di una campionessa…». La conclusione è magniloquente: le Olimpiadi sono la parata nazionalista del mondo globale. Anziché camminare al passo dell’oca applaudiamo i Cinque cerchi. Il nuovo totalitarismo sono gli sponsor, Coca-Cola, McDonald’s, Visa, Bmw, padroni dei sentimenti, mercanti di emozioni contro merce.

I Giochi di Pechino 2008 son stati seguiti da 4 miliardi e 700 milioni di esseri umani, allora il 70% della specie Homo sapiens. Non è arrogante presumere che i 5 miliardi di umani che seguono a Londra, per esempio, la maratoneta etiope Gelana battere in volata la keniana Jeptoo, due donne africane unite a pochi passi da dolore e fatica, siano vittime beote di bibite e panini? O che i ragazzi commossi da Pistorius, le ragazze che si identificano in Vezzali o Di Francisca siano la Hitlerjugend della guerra globale?

Non c’è avvenimento del nostro tempo, non le elezioni presidenziali americane che coincidono in ogni anno bisestile con le Olimpiadi, non i Mondiali di calcio, nozze di principi inglesi o Oscar di Hollywood, che avvicini il fascino globale dei Cinque Cerchi, ricreato dal bapiadi stregano, perché parlano di noi, della chimica dei nostri sentimenti che, dai Giochi funebri per Patroclo nell’Iliade, ci fa piangere, urlare, applaudire, fischiare. Vincere, perdere, battersi.

I pessimisti vedono nei Giochi solo la regia trionfalistica di tv e web, guardano gli sponsor, dimenticano uomini e donne che competono. Qui, nel cemento grigio del Villaggio olimpico, vedrebbero tornare a capo chino la judoka kazaka che ha picchiato a lungo, ai limiti del regolamento, l’avversaria pur di passare il turno, invano. O l’ostacolista colombiana Oliveros, ultima nella batteria dei 400 ostacoli e già eliminata, che rimasta sola in dirittura pure si butta avanti a limare qualche centesimo al suo tempo. Importa solo a lei, nessuno titolerà sull’ultima piazzata, ma è questo sacrificio silenzioso che ci commuove. Parla della nostra vita quotidiana, ci sprona altro che droga.

Interessi economici e politici non sono novità. In una delle ultime Olimpiadi antiche, prima che l’imperatore Teodosio le abolisse, Nerone promise ai giudici la cittadinanza romana in cambio della vittoria nella corsa dei carri. Il suo cocchio finì fuori pista, rovesciato, ma la giuria, senza sponsor, assegnò la vittoria all’imperatore. Che i potenti cerchino di profittare, ci creda Perelman, lo sanno anche i 5 miliardi di tifosi che non hanno studiato alla Sorbona. Sanno però distinguere tra multinazionali e animo umano: vedono il vogatore vincitore che, lontano dalle telecamere, si avvicina all’avversario battuto e lo carezza piano, come un fratello. Per vedere questi momenti non servono libera docenza o blog celebri: serve un cuore, da Homo sapiens.

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