Eugenio Scalfari contro Gustavo Zagrebelsky, Antonio Ingroia contro Mario Monti, «Il Fatto quotidiano» contro Napolitano, Antonio Di Pietro contro tutti... A partire dall’inchiesta di Palermo sulla possibile trattativa Stato-mafia - appesantita dalle polemiche contro il Quirinale per il conflitto di attribuzioni sollevato presso la Corte Costituzionale (circa intercettazioni di colloqui del capo dello Stato) - in quell’area politico-giudiziaria un tempo etichettata come «partito dei giudici» pare essersi scatenata una guerra di tutti contro tutti.
Cosa sta accadendo? Qual è l’origine dello scontro? E soprattutto (dietrologicamente): cosa c’è sotto? Luciano Violante - ex magistrato ed ex presidente della Camera - considerato a torto o a ragione tra i padri fondatori di quel «partito», dice la sua ad «Avvenire»: e lo fa senza troppi giri di parole. «Vedo in corso un attacco politico al ruolo del Quirinale e al governo». E conia una nuova espressione per definire protagonisti e obiettivi di questo attacco: «Populismo giuridico». Ce ne è abbastanza per cercare di approfondire.
Presidente Violante, può spiegare cos’è il populismo giuridico di cui parla, chi lo anima e che obiettivi perseguirebbe?
«A condizione di una breve premessa: che parte dal crescente distacco tra partiti e società. Questo processo è cominciato nella seconda metà degli anni ‘70, quando tutti i partiti hanno cominciato ad allontanarsi dalla società, che si stava trasformando in profondità, e si sono rinchiusi nella competizione per il potere. La legge chiamata Porcellum è - contemporaneamente - la foto e la sublimazione di questa separazione alla quale la società ha reagito in parte con il rancore e in parte alimentando tendenze di carattere populistico».
Fino a giungere a quello che lei definisce populismo giuridico.
«Fino a giungere alla costituzione di un blocco che fa capo a “Il Fatto”, a Grillo e a Di Pietro, che sta reindirizzando il reinsorgente populismo italiano. Quello di Berlusconi attaccava le Procure. Questo cerca di avvalersene avendo individuato in quelle istituzioni i soggetti oggi capaci di abbattere il “nemico”, e di affermare un presunto nuovo ordine, che non si capisce cosa sia. Ma se il populismo vuole giocare le sue carte, deve giocarle contro gli architravi che oggi tengono in piedi l’Italia: Monti e il Quirinale. E poiché Monti non è abbattibile senza abbattere chi lo ha proposto, si punta al Colle. E fa male vedere che grandi intelligenze si rendano strumento di una simile operazione, restando insensibili alle conseguenze».
Pensa alle posizioni assunte da Ingroia e Zagrebelsky?
«Il blocco di cui parlo punta sulla Procura di Palermo e non su quella di Taranto, ad esempio, perchè a Palermo si ipotizza, vedremo quanto fondatamente, che uomini politici, peraltro non individuati, abbiano negoziato con la mafia: argomento utile per questo populismo».
Lei parla di un blocco, di un piano e di un attacco: c’è chi considera Antonio Di Pietro il regista di tutto questo.
«Da un punto di vista mediatico, il solco è stato tracciato da trasmissioni televisive come quelle di Santoro, che pure sono state e sono di grande utilità: lì, però, si é formato l’humus non democratico di questo populismo che alimentava rancore sociale e sostituiva l’argomento con l’invettiva. La scelta di Di Pietro - collocarsi fuori dal centrosinistra - nasce quando di fronte al rischio di erosione di consensi da parte di 5 Stelle e della Lega, ormai senza Berlusconi, invece di rivedere il proprio asse strategico ha gareggiato con loro sul loro stesso piano. Un intreccio di populismi che va combattuto senza esecrazioni, ma con gli strumenti della ragione e della ripresa del dialogo con la società».
Molti, soprattutto nel centrodestra, dicono che il populismo giuridico non è poi così diverso da quel «partito dei giudici» di cui parlavamo all’inizio. Non crede anche lei che sia così?
«Il partito dei giudici non è esistito. All’epoca della lotta al terrorismo, alla grande mafia e alla corruzione, ai tempi di Tangentopoli sostenemmo con rigore la battaglia per la legalità. Settori della magistratura e della politica si ritrovarono dalla stessa parte della barricata, quella delle leggi e della Costituzione, ma in assoluta autonomia e a volte anche in polemica tra loro. Il populismo giuridico utilizza semplicemente le Procure come clava politica».
Il Pdl sostiene che la differenza è sottile, e che dovreste fare autocritica e ammettere che Berlusconi aveva ragione quando puntava l’indice contro gli «sconfinamenti» della magistratura...
«La filosofia del berlusconismo era di tipo giacobino: sostenevano l’irresponsabilità penale della politica, punto e basta. L’unica cosa che contava era l’investitura popolare. In democrazia le regole sono fatte per limitare il potere. Nella loro concezione Il potere era fatto per limitare le regole...»
E il «partito dei giudici»? È morto, finito? Perchè litigano così aspramente i protagonisti di tante battaglie comuni?
«Emergono linee di frattura, prodotte da scosse sociali e istituzionali. La democrazia deve ritrovare le sue ragioni di fondo nella separazione dei poteri, nella responsabilità di ciascun potere e nella capacità di leggere e di interpretare la società italiana. Altrimenti prevarrà il populismo, giuridico e non».
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