1. Le lettere firmate da Ratzinger e Bergoglio ‒ ed indirizzate a Odifreddi e Eugenio Scalfari ‒ rappresentano un fatto non solo eccezionale, ma anche alquanto significativo perché dà indirettamente conto della svolta, ormai definitiva, che ha interessato la forma politica del Cattolicesimo romano. La portata di questa trasformazione non potrà essere analizzata in tutta la sua profondità. Mi limiterò pertanto ad alcune considerazioni preliminari, prima di abbozzare, negli articoli a seguire, una più attenta riflessione sul confronto tra Bergoglio e il fondatore di “Repubblica” (quanto a quello col matematico impertinente, direi invece che prima di trarre qualsivoglia conclusione è doveroso attendere la versione completa della replica del “Papst außer Dienst”, il “Papa a riposo” preconizzato da Nietzsche la cui profezia ha trovato in Benedetto XVI crepuscolare ma inaspettato adempimento).
Tanto per suggerire la misura dell’impronta innovatrice di Bergoglio, vorrei richiamare l’incipit, durissimo, della famosa Lettera di Giuseppe Mazzini al clero italiano (1850): “La parola di Pio IX non esce da Roma”. Trattasi infatti di “anatema alla libertà” e “condanna all’educazione del genere umano”. Quella del Papa, incalza Mazzini, “è parola d’uomo che trema, e che maledice. Il divorzio fra il mondo e lui, fra il popolo dei credenti, ch’è la vera Chiesa, e l’aristocrazia fornicatrice che ne usurpa il nome, v’è sculto a ogni sillaba. Da lunghi anni il papato ha perduto la potenza d’amare e di benedire”. Inutile dire che la Chiesa immaginata da Francesco (molto lontana, a mio parere, dal populismo reazionario di Wojtyła), intende muovere in direzione diametralmente opposta: non solo la sua parola vuol essere tutt’altro che ‘romana’, ma è proferita col precipuo scopo di ricucire il “divorzio” fra il mondo e la Chiesa, o meglio: fra il Catechismo della Chiesa Cattolica (nonché la sua Dottrina sociale) e la modernità secolarizzata. Bergoglio non “trema” né “maledice” ma, con contegno gentile, non si sottrae alle obiezioni ‒ talora un animato J’Accuse ‒ che una fetta consistente della cultura contemporanea rivolge alla fede cristiana.
Ma veniamo al contenuto della lettera. Alla domanda di Scalfari, che chiede quale sia la posizione della Chiesa rispetto a una persona che “non ha fede né la cerca”, se questi sia cioè irrimediabilmente un peccatore, Bergoglio risponde: “Premesso che – ed è la cosa fondamentale – la misericordia di Dio non ha limiti se ci si rivolge a lui con cuore sincero e contrito, la questione per chi non crede in Dio sta nell’obbedire alla propria coscienza. Il peccato, anche per chi non ha la fede, c’è quando si va contro la coscienza”. Si tratta di un’affermazione decisiva: il peccato si configura qualora si agisca contro la coscienza. Eppure nel Catechismo della Chiesa Cattolica (CCC 1849), che riprende alla lettera Sant’Agostino (Contra Faustum manichaeum), il peccato viene definito come “una parola, un atto o un desiderio contrari alla Legge eterna” (“Peccatum est, factum vel dictum vel concupitum aliquid contra aeternam legem”). E “Legge eterna” è anzitutto quella incisa sulle tavole donate da Dio a Mosé sul Monte Sinai, di cui è dato conto (seppur in differenti versioni) sia nell’Esodo (20, 2-17) che nel Deuteronomio (5, 6-21). “Legge eterna”, per definizione, è dunque la Legge divina, il cui ultimo significato trascende i limiti dell’esperienza umana (si tratta infatti di una Legge rivelata, che come tale non è né un prodotto né un semplice ‘conseguimento’ dell’uomo). Ecco allora che da un punto di vista dottrinale l’asserzione di Bergoglio configura un radicale ribaltamento dell’argomento agostiniano: “obbedire alla propria coscienza” è cosa ben diversa dall’obbedire alla “Legge eterna” promulgata da Dio. Da una parte, infatti, il fondamento della Legge è espressamente teologico ‒ e trascende il dominio dell’umano ‒, dall’altra appare invece insito nell’essenza del cogito, dunque dell’autocoscienza del soggetto. Beninteso: è possibile contrapporre a quest’interpretazione l’opzione, ancora una volta di matrice agostiniana, per cui Dio, nella sua paradossale contraddittorietà, sarebbe ciò che è insieme “intimius intimo meo et superius summo meo”, “più intimo a me di me stesso e superiore a ciò che c’è in me di più alto” (Conf. III, 6, 11). Così dicendo verrebbe infatti giustificata l’esatta coincidenza ‒ ed assoluta inscindibilità ‒ della Legge di Dio e della coscienza umana della Legge. Tuttavia, se anche si ammettessero queste premesse (del tutto infondate a giudizio di chi scrive e accettabili solo per chi crede), resta il fatto che nel momento in cui la Legge divina fosse già in quanto tale insita nella coscienza dell’uomo, ciò rivelerebbe già di per sé la patente ‘curvatura’ soggettivistica dell’intero paradigma.
Ma non è tutto. L’argomento di Bergoglio contravviene infatti anche un altro dei cardini della dottrina cristiana. Pur facendo seguito ad una rigorosa avvertenza (“senza la Chiesa – mi creda – non avrei potuto incontrare Gesù”), la considerazione di Francesco secondo cui il “peccato, anche per chi non ha la fede”, consiste nell’agire “contro la coscienza”, lascia presagire che esista una sorta di ‘salvezza laica’ per coloro che, in quanto non credenti, si pongono al di fuori della Chiesa. Il che costituisce però una palese sconfessione del celebre extra ecclesiam nulla salus: non c’è salvezza fuori dalla Chiesa (frase che parafrasa San Cipriano ‒ il quale, in un’epistola a Stefano I, scrisse appunto “Salus extra ecclesiam non est” ‒ e che può inoltre vantare tutta una serie di riprese e conferme, dal Catechismo del Concilio di Trento (articolo 114) al Catechismo di Pio X (articolo 169), e financo, in epoca più recente, alla Costituzione dogmatica Lumen gentium del Concilio Vaticano II, in cui viene detto espressamente che la “Chiesa peregrinante è necessaria alla salvezza”).
2. Da quanto detto nel precedente articolo è possibile trarre almeno due conseguenze (che mi paiono alquanto significative e che possono forse aiutare a comprendere l’effettiva posta in gioco nel dialogo tra Scalfari e Bergoglio, su cui intendo ritornare più dettagliatamente in seguito). Vengo dunque ad esporre la prima, mentre la seconda sarà oggetto di un intervento successivo.
Nel momento in cui la moralità dell’agire, dunque il principio da cui scaturisce la prassi umana, ha come fondamento la coscienza del soggetto ‒ non già, dunque, Dio in quanto‘entità’ trascendente ‒, non è più possibile riscontrare alcuna significativa distinzione metafisica tra il pensiero filosofico moderno, di matrice essenzialmente cartesiana, e il Cristianesimo secolarizzato. Entrambi i sistemi, infatti, si ergono sulle stesse fondamenta. Si è così compiuta l’estrema trasformazione della religione cristiana in antropologia sociale ‒ il che, dal punto di vista storico-epocale, non è che l’ultima, inevitabile conseguenza dell’incarnazione di Cristo: facendosi uomo, il Dio della tradizione cristiana ha dato avvio fin dall’inizio ad un irreversibile processo di ‘deteologizzazione’, dunque di neutralizzazione della propria ‘natura divina’: contrariamente all’Ebraismo o all’Islam, il Cristianesimo si presenta fin da subito come un’antropologia secolarizzata o, se si vuole, una teologia neutralizzata dall’incarnazione. Altresì detto: Cristianesimo e cartesianesimo coincidono ab origine nel loro progetto fondamentale ‒ e le affermazioni di Begoglio non sono che un’ultima, eminente attestazione di questa essenziale coincidenza.
Solo in due punti, forse i più alti dell’intera lettera, il Papa pare contravvenire a quest’impostazione. Nel primo caso quando, parlando dell’“autorità” di Cristo, glossa: “La parola greca è exousia, che alla lettera rimanda a ciò che ‘proviene dall’essere’ che si è. Non si tratta di qualcosa di esteriore o di forzato, dunque, ma di qualcosa che emana da dentro e che si impone da sé. Gesù in effetti colpisce, spiazza, innova a partire ‒ egli stesso lo dice ‒ dal suo rapporto con Dio”. Il termine greco ousia indica l’essenza concreta di una cosa: cioè che, sia da un punto di vista formale che da un punto di vista materiale, fa sì che essa sia proprio quella cosa che è. Ciò da cui Cristo, il Figlio dell’uomo, trae il proprio essere è Dio stesso, il quale è appunto ousia, ossia l’essere essenziale da cui Cristo ‘eredita’ la sua exousia. Egli, infatti, è anzitutto Figlio di Dio. Sottolinearlo significa pertanto riconoscere il fondamento teologico, e dunque trascendente, che rende possibile Cristo e la vita in Cristo. Ciononostante, è indicativo il fatto che anziché soffermarsi sull’ousia divina il Pontefice prediliga indugiare sulla sua ‘forma derivata’, l’exousia di Cristo. Potremmo dire che l’exousia di Cristo non è altro che la forma secolare, dunque storicamente effettiva, dell’ousia di Dio.
Ancora una volta, quindi, le parole del Papa appaiono affatto mirate: pur non trascurando “il rapporto con Dio” di Cristo, il fulcro della sua lettura è decisamente sbilanciato verso il mistero dell’umanità del Figlio. Sul secondo punto, che concerne il rapporto tra Dio e il pensiero che lo pensa, dunque il penultimo paragrafo della missiva papale, tornerò invece nell’ultimo dei quattro articoli in cui sono ripartite le presenti considerazioni.
3. Che conseguenze sortisce, si diceva, il pensiero proposto da Bergoglio? La fine della teologia politica come orizzonte teorico fondamentale per comprendere il magistero della Chiesa ed il suo rapporto con la società civile. È un’affermazione che necessita di alcune specificazioni. Secondo Carl Schmitt (Cattolicesimo romano e forma politica), “la Chiesa rappresenta la civitas humana, rappresenta in ogni attimo il rapporto storico con l’incarnazione e con il sacrificio in croce di Cristo, rappresenta Cristo stesso in forma personale, il Dio che si è fatto uomo nella realtà storica”. Non è un’esagerazione dire che l’estratto compendia magnificamente l’architettura fondamentale di ogni teologia politica.
La Chiesa rappresenta ‒ ossia: rende presente ‒ l’intera umanità (essa è infatti ecclesia universalis) facendola formalmente coincidere con il divino, ossia con il corpo mistico di Cristo che è appunto la Chiesa stessa (si confrontino a riguardo 1 Cor. 12,12-27, oppure l’enciclica Mystici Corporis Christi redatta da Pio XII). La Chiesa, in virtù della sua specifica forma giuridica, rende dunque presente la comunità degli uomini facendola coincidere col corpo vivente del Cristo.
Da un punto di vista teorico, tuttavia, ciò è possibile solo finché il fondamento della comunità dei credenti è costituito dall’incarnazione, cioè dalla presenza del Padre nel Figlio, il che è come dire: la Chiesa può rappresentare l’unione di Cristo con la comunità dei credenti se e solo se essa Chiesa, tramite il Figlio e il suo vicario, ossia il Pontefice, esiste sul fondamento dell’incarnazione, dunque sul fondamento del proprio rapporto con Dio mediato da Cristo e dal suo corpo. Tale rapporto dev’essere istitutivo e connaturato all’esistenza stessa della Chiesa, la quale deve quindi la sua autorità all’originario legame giuridico-teologico che fa sì che essa, come sostiene Schmitt, rappresenti “Cristo stesso in forma personale”.
Ora, è esattamente questo paradigma a dimostrarsi insostenibile se ‘applicato’ alla Chiesa post-ratzingeriana. Dopo l’‘abdicazione’ di Benedetto XVI, infatti, diviene impossibile parlare della Chiesa come dell’istituzione che rappresenta Cristo “in forma personale”. Si segua il seguente ragionamento: se la Chiesa è il corpo mistico di Cristo e il Pontefice è il suo vicario, ciò significa che (recuperando Kantorowicz) il corpo e l’autorità papali sono soggetti a un inevitabile sdoppiamento grazie al quale al Vescovo di Roma pertiene sia un corpo mistico, cristico, che partecipa direttamente all’incarnazione, sia un corpo naturale, limitato alla sua esperienza di uomo mortale.
Ora ‒ ed è qui che lo schema di Kantorowicz va rivisto ‒ il corpo mistico mantiene però comunque un’insopprimibile componente carnale, data dal fatto che il Papa può essere vicario di Cristo soltanto se partecipa anche nella carne al mistero dell’incarnazione, il che è come dire: la persona fisica del Pontefice non è mai solo e soltanto corpo naturale; altrettanto, però, egli non è mai solo e soltanto corpo spirituale, mero symbolum Christi: nella sua carne, infatti, partecipa anche ‘fisicamente’ all’incarnazione del Padre nel Figlio (come peraltro ogni cristiano tramite l’eucarestia). È per questo che, secondo il modello teologico-politico, in linea teorica il Papa non potrebbe abdicare: non è dato rinunciare al ministero petrino così come Cristo non avrebbe potuto rifiutarsi di essere Cristo ed anzi, nonostante le sofferenza cui è stato sottoposto, ha scontato fino allo stremo il dramma della propria incarnazione.
Ma Ratzinger, come sappiamo, ha rinunciato al pontificato. Il significato teologico di questa decisione è chiaro ed al contempo enorme: così facendo egli ha implicitamente negato l’esistenza del corpo mistico-carnale, ha negato il fatto che il Papa partecipi anche ‘fisicamente’ ‒ e cioè col suo corpo ‒ all’evento dell’incarnazione (se così fosse, infatti, gli sarebbe stato impossibile sottrarsi al suo ruolo senza rinunciare contemporaneamente al proprio corpo ‘reale’, cosa che, invece, può avvenire soltanto con la morte). Tale scelta, però, implica altrettanto l’ammissione che il Papa non sia il vicario di Cristo, bensì un semplice sovrano, detentore di un potere temporale che in quanto tale può essere addirittura ceduto e rifiutato.
Wojtyła, l’ultimo Pontefice ad aver esercitato il proprio ministero nell’alveo della teologia politica, era pienamente consapevole di queste implicazioni e sapeva che, qualora avesse abdicato, avrebbe decretato la fine del legame carnale che faceva del Papa il vicario di Cristo e della Chiesa il corpo di Cristo (proprio per questo, peraltro, Giovanni Paolo II non intese rinunciare al pontificato nonostante le gravi condizioni di salute in cui versava: solo con la morte avrebbe potuto sancire la fine del legame carnale per il quale il corpo del Pontefice rappresenta fisicamente il Cristo; diversamente, se il legame tra Cristo e il suo vicario fosse stato soltanto simbolico e dunque trasferibile, ciò avrebbe immediatamente decretato l’impossibilità della Chiesa come corpo mistico e dunque il venir meno del fondamento stesso su cui si basa la teologia politica).
Come Cristo patì il tormento della croce, così, se necessario, deve patirlo il vicario che lo rappresenta, ossia: lo rende presente. Nel momento in cui tale coincidenza carnale venga meno, nel momento cioè in cui un papa possa ritirarsi dalla scena come un semplice rappresentante politico, ciò significa che egli non incarna più il corpo di Cristo, che il suo corpo è solo temporale e proprio perciò può essere indifferentemente liberato dall’investitura petrina. Dal momento in cui Ratzinger ha abbandonato il soglio, smascherando la natura completamente umana della sua figura, il Pontefice ha smesso di essere il vicario di Cristo e la Chiesa, che egli rappresenta, non può più dirsi corpo mistico di Cristo. Con la fine del ripetersi dell’incarnazione nella figura del successore di Pietro, è stata altresì decretata la fine della teologia politica come orizzonte determinante al fine di concepire il rapporto tra Chiesa e saeculum.
È questo il solco in cui vanno intese le affermazioni di Bergoglio, le quali non fanno che consolidare ‒ per certi versi radicalizzandola ‒ la fine della teologia politica sancita dal “gran rifiuto” di Ratzinger. Affermare che fondamento dell’agire cristiano dev’essere l’obbedienza “alla propria coscienza” ‒ non, dunque, la conformità delle proprie azioni al Catechismo della Chiesa ‒ è lo stesso che dire: è possibile un Cristianesimo fondato sulla soggettività del soggetto, dunque esternamente al (ed indipendentemente dal) legame giuridico, cioè teologico-politico, che congiunge la civitas humana a Cristo facendo leva sulla mediazione della Chiesa in quanto corpo mistico del Figlio.
Ma se fondato sulla coscienza del soggetto, il Cristianesimo si è trasformato essenzialmente in un’antropologia pragmatica. L’incarnazione si è completamente risolta nel ‘fatto’ umano, neutralizzando il suo originario radicamento nella trascendenza quale sua polarità essenziale. La Chiesa non rappresenta più “Cristo stesso in forma personale”, ma la comunità universale di tutti i soggetti, credenti e non, esterni o interni al corpo mistico della Chiesa, purché obbediscano ai dettami della propria coscienza. Non v’è allora più alcun bisogno di una forma giuridica specifica entro la quale la comunità dei soli fedeli coincida col corpo di Cristo. Se dopo Ratzinger la Chiesa non è più il corpo di Cristo, con Bergoglio essa cessa di essere la condizione di possibilità della moralità. C’è salvezza anche fuori dalla Chiesa, o meglio: extra Ecclesiam tota salus ‒ c’è salvezza ovunque dacché condizione necessaria e sufficiente per essa è l’obbedienza alla coscienza, dunque alla forma trascendentale dell’umano (mentre la Chiesa era la forma teologico-politica determinata del legame, specificamente cristiano, tra storia e trascendenza).
Sono questi i termini in cui il Cristianesimo come antropologia ha posto fine all’egemonia dell’impostazione teologico-politica. Ciò detto, la fine della teologia politica decreta altresì la fine della Chiesa come necessità giuridico-formale garante del rapporto tra la civitas humana e il corpo di Cristo. Si sta cioè sostenendo che il rifiuto di Ratzinger prima ‒ e le affermazioni di Bergoglio poi ‒ costituiscono un passo essenziale per il superamento della Chiesa come forma storica. Volendo essere ancora più espliciti, arriverei a dire che i due pontefici hanno posto le basi per il definitivo tramonto della Chiesa come istituzione secolare.
4. Ma torniamo finalmente a Scalfari, “un non credente che è da molti anni interessato e affascinato dalla predicazione di Gesù di Nazareth” ‒ stando a come il giornalista presenta se stesso. Dopodiché aggiunge: “Ho una cultura illuminista e non cerco Dio”. Ma non è questo il punto della questione. Da un punto di vista metafisico, infatti, non sono affatto la fede o la ‘ricerca’ di Dio a connotare il cristiano. La presunta ‘cultura illuminista’ di cui parla Scalfari è invero molto più cristiana di quanto apparentemente voglia sembrare. Se il Cristianesimo è quello di Bergoglio, fondato sull’obbedienza alla propria coscienza, dunque su di una prassi che ha come principio l’autocoscienza del soggetto rappresentante, bisogna anzi ammettere che, in quanto entrambe filosofie della soggettività, Cristianesimo e illuminismo coincidono: condividono cioè la stessa posizione metafisica fondamentale.
Con un tono che nelle intenzioni vorrebbe forse apparire paradossale, Scalfari afferma: “ai non credenti come me Francesco piace molto, anzi moltissimo”. La vicinanza a Papa Francesco è data da un’evidenza semplicissima quanto insospettata. Se Francesco “piace molto” al fondatore di Repubblica, infatti, è perché sia il Pontefice cristiano che il giornalista ‘illuminista’, pur senza saperlo, credono invero nella stessa cosa: l’autocoscienza trascendentale del soggetto come fondamento dell’agire e dell’essere. Altresì detto, nello spazio apertosi dopo il tramonto della teologia politica, ‘illuminismo’ e cattolicesimo, pensiero religioso e secolarizzazione, s’incontrano su di uno stesso terreno, quello del soggetto quale fondamento dell’esperienza umana nel suo complesso: un Cristianesimo neutralizzato che si è definitivamente trasformato in antropologia pragmatica.
Non è un caso, peraltro, che Scalfari presenti il seguente ragionamento, la cui cifra è espressamente umanistica: “penso anche che con la scomparsa della nostra specie scomparirà anche il pensiero capace di pensare Dio e che quindi, quando la nostra specie scomparirà, allora scomparirà anche Dio perché nessuno sarà più in grado di pensarlo”. Solo all’interno di un paradigma irrimediabilmente antropologico è possibile identificare il pensiero con l’attività di un soggetto, in questo caso quello umano.
Chi può dimostrare che il pensiero debba necessariamente identificarsi con il pensiero dell’uomo? In Spinoza, ad esempio, il pensiero è un attributo della sostanza, non certo della ‘mente’ o del ‘soggetto’. L’affermazione di Scalfari tradisce pertanto una vera e propria ideologia della coscienza che, del tutto insondata nei suoi presupposti, trasforma quella che vorrebbe essere la posizione di un non credente in un’accanita forma di credenza, la quale concepisce ogni possibile esperienza a partire dall’autocoscienza del soggetto certo di se stesso e dunque ritenuto capace di pensiero. Per concludere, circa la posizione espressa da Scalfari risulta quanto mai appropriata la seguente affermazione heideggeriana: “La cultura dell’età moderna è cristiana anche là dove diviene non credente”, o s’illude di esserlo.
Sulla presunta interdipendenza tra pensiero e soggetto pensante, la risposta di Bergoglio è senz’altro meno ingenua e speculativamente non priva di raffinatezza (era questo, peraltro, il secondo punto cui facevo riferimento nel mio secondo articolo, accennando ai momenti più alti della sua missiva).
Scrive il Pontefice: “Dio [...] non è un’idea, sia pure altissima, frutto del pensiero dell’uomo [...] Dio non dipende, dunque, dal nostro pensiero”. Ora, quest’affermazione può ricevere il suo senso all’interno di due soli paradigmi: quello teologico-politico, di cui però lo stesso Papa ha già implicitamente decretato il superamento, o quello, il cui ambito non viene nemmeno sfiorato ‒ né da Francesco né tantomeno da Scalfari ‒, che potremmo con buona approssimazione raggruppare sotto l’etichetta (forse fuorviante ma sufficientemente icastica) di nichilismo europeo (nella sua versione attiva, per riprendere ancora una volta Nietzsche).
E mi riferisco al pensiero di chi rimane sostanzialmente indifferente innanzi alla figura di Cristo, di chi non crede né in Dio né nell’uomo ‒ non nella ragione cartesiano-illuministica e nemmeno in alcun fondamento trascendente.
Troppo a lungo si è ritenuto legittimo liquidare questo pensiero poiché refrattario alla costruzione di qualsivoglia sistema etico, additandogli l’equivoco di una negatività assoluta il cui esito ultimo finirebbe coll’essere soltanto l’inevitabile soppressione di se stessa. Non è così: esiste una filosofia capace di coniugare vita ed immanenza, capace cioè di pensare l’inesausta proliferazione dei fenomeni alla luce di quella che potrebbe essere definita un’inedita cosmologia irrationalis di matrice essenzialmente trascendentale ‒ dunque senza ricorrere ad alcun dispositivo teologico né far leva sulla moderna metafisica della soggettività.
Gli esempi a riguardo potrebbero essere molteplici. Mi limito a qualche nome: Anassimandro, Eraclito, Aristotele (se opportunamente emendato, e penso soprattutto alla Fisica), Giordano Bruno, Spinoza, Nietzsche, Simondon, Deleuze e ‒ nella mia lettura ‒ il pensiero del secondo Heidegger o di Eugen Fink.
Con riferimento all’affermazione di Bergoglio, direi che la posta in gioco è la seguente: ridefinire il rapporto tra pensiero e cosmo alla luce del fatto che il pensiero non proviene dall’uomo e non è affatto una prerogativa specifica della sua presunta soggettività. Si tratta cioè di concepire un pensiero inassegnabile, impersonale ed al contempo assolutamente concreto poiché immediatamente innervato nelle fibre del mondo ‒ di un cosmo che dev’essere pertanto riconosciuto come insieme materiale e trascendentale. Se davvero intendono interrogare il momento anticristiano che inquieta la tradizione occidentale, i due papi, tralasciando la contrapposizione ‒ del tutto inconsistente ‒ tra illuminismo e Cristianesimo, dovrebbero invece osare un effettivo confronto con il nichilismo attivo dell’alternativa cosmologico-trascendentale. Peccato non essere Scalfari: ci sarebbe altrimenti il rischio che qualcuno risponda.
2. Da quanto detto nel precedente articolo è possibile trarre almeno due conseguenze (che mi paiono alquanto significative e che possono forse aiutare a comprendere l’effettiva posta in gioco nel dialogo tra Scalfari e Bergoglio, su cui intendo ritornare più dettagliatamente in seguito). Vengo dunque ad esporre la prima, mentre la seconda sarà oggetto di un intervento successivo.
Nel momento in cui la moralità dell’agire, dunque il principio da cui scaturisce la prassi umana, ha come fondamento la coscienza del soggetto ‒ non già, dunque, Dio in quanto‘entità’ trascendente ‒, non è più possibile riscontrare alcuna significativa distinzione metafisica tra il pensiero filosofico moderno, di matrice essenzialmente cartesiana, e il Cristianesimo secolarizzato. Entrambi i sistemi, infatti, si ergono sulle stesse fondamenta. Si è così compiuta l’estrema trasformazione della religione cristiana in antropologia sociale ‒ il che, dal punto di vista storico-epocale, non è che l’ultima, inevitabile conseguenza dell’incarnazione di Cristo: facendosi uomo, il Dio della tradizione cristiana ha dato avvio fin dall’inizio ad un irreversibile processo di ‘deteologizzazione’, dunque di neutralizzazione della propria ‘natura divina’: contrariamente all’Ebraismo o all’Islam, il Cristianesimo si presenta fin da subito come un’antropologia secolarizzata o, se si vuole, una teologia neutralizzata dall’incarnazione. Altresì detto: Cristianesimo e cartesianesimo coincidono ab origine nel loro progetto fondamentale ‒ e le affermazioni di Begoglio non sono che un’ultima, eminente attestazione di questa essenziale coincidenza.
Solo in due punti, forse i più alti dell’intera lettera, il Papa pare contravvenire a quest’impostazione. Nel primo caso quando, parlando dell’“autorità” di Cristo, glossa: “La parola greca è exousia, che alla lettera rimanda a ciò che ‘proviene dall’essere’ che si è. Non si tratta di qualcosa di esteriore o di forzato, dunque, ma di qualcosa che emana da dentro e che si impone da sé. Gesù in effetti colpisce, spiazza, innova a partire ‒ egli stesso lo dice ‒ dal suo rapporto con Dio”. Il termine greco ousia indica l’essenza concreta di una cosa: cioè che, sia da un punto di vista formale che da un punto di vista materiale, fa sì che essa sia proprio quella cosa che è. Ciò da cui Cristo, il Figlio dell’uomo, trae il proprio essere è Dio stesso, il quale è appunto ousia, ossia l’essere essenziale da cui Cristo ‘eredita’ la sua exousia. Egli, infatti, è anzitutto Figlio di Dio. Sottolinearlo significa pertanto riconoscere il fondamento teologico, e dunque trascendente, che rende possibile Cristo e la vita in Cristo. Ciononostante, è indicativo il fatto che anziché soffermarsi sull’ousia divina il Pontefice prediliga indugiare sulla sua ‘forma derivata’, l’exousia di Cristo. Potremmo dire che l’exousia di Cristo non è altro che la forma secolare, dunque storicamente effettiva, dell’ousia di Dio.
Ancora una volta, quindi, le parole del Papa appaiono affatto mirate: pur non trascurando “il rapporto con Dio” di Cristo, il fulcro della sua lettura è decisamente sbilanciato verso il mistero dell’umanità del Figlio. Sul secondo punto, che concerne il rapporto tra Dio e il pensiero che lo pensa, dunque il penultimo paragrafo della missiva papale, tornerò invece nell’ultimo dei quattro articoli in cui sono ripartite le presenti considerazioni.
3. Che conseguenze sortisce, si diceva, il pensiero proposto da Bergoglio? La fine della teologia politica come orizzonte teorico fondamentale per comprendere il magistero della Chiesa ed il suo rapporto con la società civile. È un’affermazione che necessita di alcune specificazioni. Secondo Carl Schmitt (Cattolicesimo romano e forma politica), “la Chiesa rappresenta la civitas humana, rappresenta in ogni attimo il rapporto storico con l’incarnazione e con il sacrificio in croce di Cristo, rappresenta Cristo stesso in forma personale, il Dio che si è fatto uomo nella realtà storica”. Non è un’esagerazione dire che l’estratto compendia magnificamente l’architettura fondamentale di ogni teologia politica.
La Chiesa rappresenta ‒ ossia: rende presente ‒ l’intera umanità (essa è infatti ecclesia universalis) facendola formalmente coincidere con il divino, ossia con il corpo mistico di Cristo che è appunto la Chiesa stessa (si confrontino a riguardo 1 Cor. 12,12-27, oppure l’enciclica Mystici Corporis Christi redatta da Pio XII). La Chiesa, in virtù della sua specifica forma giuridica, rende dunque presente la comunità degli uomini facendola coincidere col corpo vivente del Cristo.
Da un punto di vista teorico, tuttavia, ciò è possibile solo finché il fondamento della comunità dei credenti è costituito dall’incarnazione, cioè dalla presenza del Padre nel Figlio, il che è come dire: la Chiesa può rappresentare l’unione di Cristo con la comunità dei credenti se e solo se essa Chiesa, tramite il Figlio e il suo vicario, ossia il Pontefice, esiste sul fondamento dell’incarnazione, dunque sul fondamento del proprio rapporto con Dio mediato da Cristo e dal suo corpo. Tale rapporto dev’essere istitutivo e connaturato all’esistenza stessa della Chiesa, la quale deve quindi la sua autorità all’originario legame giuridico-teologico che fa sì che essa, come sostiene Schmitt, rappresenti “Cristo stesso in forma personale”.
Ora, è esattamente questo paradigma a dimostrarsi insostenibile se ‘applicato’ alla Chiesa post-ratzingeriana. Dopo l’‘abdicazione’ di Benedetto XVI, infatti, diviene impossibile parlare della Chiesa come dell’istituzione che rappresenta Cristo “in forma personale”. Si segua il seguente ragionamento: se la Chiesa è il corpo mistico di Cristo e il Pontefice è il suo vicario, ciò significa che (recuperando Kantorowicz) il corpo e l’autorità papali sono soggetti a un inevitabile sdoppiamento grazie al quale al Vescovo di Roma pertiene sia un corpo mistico, cristico, che partecipa direttamente all’incarnazione, sia un corpo naturale, limitato alla sua esperienza di uomo mortale.
Ora ‒ ed è qui che lo schema di Kantorowicz va rivisto ‒ il corpo mistico mantiene però comunque un’insopprimibile componente carnale, data dal fatto che il Papa può essere vicario di Cristo soltanto se partecipa anche nella carne al mistero dell’incarnazione, il che è come dire: la persona fisica del Pontefice non è mai solo e soltanto corpo naturale; altrettanto, però, egli non è mai solo e soltanto corpo spirituale, mero symbolum Christi: nella sua carne, infatti, partecipa anche ‘fisicamente’ all’incarnazione del Padre nel Figlio (come peraltro ogni cristiano tramite l’eucarestia). È per questo che, secondo il modello teologico-politico, in linea teorica il Papa non potrebbe abdicare: non è dato rinunciare al ministero petrino così come Cristo non avrebbe potuto rifiutarsi di essere Cristo ed anzi, nonostante le sofferenza cui è stato sottoposto, ha scontato fino allo stremo il dramma della propria incarnazione.
Ma Ratzinger, come sappiamo, ha rinunciato al pontificato. Il significato teologico di questa decisione è chiaro ed al contempo enorme: così facendo egli ha implicitamente negato l’esistenza del corpo mistico-carnale, ha negato il fatto che il Papa partecipi anche ‘fisicamente’ ‒ e cioè col suo corpo ‒ all’evento dell’incarnazione (se così fosse, infatti, gli sarebbe stato impossibile sottrarsi al suo ruolo senza rinunciare contemporaneamente al proprio corpo ‘reale’, cosa che, invece, può avvenire soltanto con la morte). Tale scelta, però, implica altrettanto l’ammissione che il Papa non sia il vicario di Cristo, bensì un semplice sovrano, detentore di un potere temporale che in quanto tale può essere addirittura ceduto e rifiutato.
Wojtyła, l’ultimo Pontefice ad aver esercitato il proprio ministero nell’alveo della teologia politica, era pienamente consapevole di queste implicazioni e sapeva che, qualora avesse abdicato, avrebbe decretato la fine del legame carnale che faceva del Papa il vicario di Cristo e della Chiesa il corpo di Cristo (proprio per questo, peraltro, Giovanni Paolo II non intese rinunciare al pontificato nonostante le gravi condizioni di salute in cui versava: solo con la morte avrebbe potuto sancire la fine del legame carnale per il quale il corpo del Pontefice rappresenta fisicamente il Cristo; diversamente, se il legame tra Cristo e il suo vicario fosse stato soltanto simbolico e dunque trasferibile, ciò avrebbe immediatamente decretato l’impossibilità della Chiesa come corpo mistico e dunque il venir meno del fondamento stesso su cui si basa la teologia politica).
Come Cristo patì il tormento della croce, così, se necessario, deve patirlo il vicario che lo rappresenta, ossia: lo rende presente. Nel momento in cui tale coincidenza carnale venga meno, nel momento cioè in cui un papa possa ritirarsi dalla scena come un semplice rappresentante politico, ciò significa che egli non incarna più il corpo di Cristo, che il suo corpo è solo temporale e proprio perciò può essere indifferentemente liberato dall’investitura petrina. Dal momento in cui Ratzinger ha abbandonato il soglio, smascherando la natura completamente umana della sua figura, il Pontefice ha smesso di essere il vicario di Cristo e la Chiesa, che egli rappresenta, non può più dirsi corpo mistico di Cristo. Con la fine del ripetersi dell’incarnazione nella figura del successore di Pietro, è stata altresì decretata la fine della teologia politica come orizzonte determinante al fine di concepire il rapporto tra Chiesa e saeculum.
È questo il solco in cui vanno intese le affermazioni di Bergoglio, le quali non fanno che consolidare ‒ per certi versi radicalizzandola ‒ la fine della teologia politica sancita dal “gran rifiuto” di Ratzinger. Affermare che fondamento dell’agire cristiano dev’essere l’obbedienza “alla propria coscienza” ‒ non, dunque, la conformità delle proprie azioni al Catechismo della Chiesa ‒ è lo stesso che dire: è possibile un Cristianesimo fondato sulla soggettività del soggetto, dunque esternamente al (ed indipendentemente dal) legame giuridico, cioè teologico-politico, che congiunge la civitas humana a Cristo facendo leva sulla mediazione della Chiesa in quanto corpo mistico del Figlio.
Ma se fondato sulla coscienza del soggetto, il Cristianesimo si è trasformato essenzialmente in un’antropologia pragmatica. L’incarnazione si è completamente risolta nel ‘fatto’ umano, neutralizzando il suo originario radicamento nella trascendenza quale sua polarità essenziale. La Chiesa non rappresenta più “Cristo stesso in forma personale”, ma la comunità universale di tutti i soggetti, credenti e non, esterni o interni al corpo mistico della Chiesa, purché obbediscano ai dettami della propria coscienza. Non v’è allora più alcun bisogno di una forma giuridica specifica entro la quale la comunità dei soli fedeli coincida col corpo di Cristo. Se dopo Ratzinger la Chiesa non è più il corpo di Cristo, con Bergoglio essa cessa di essere la condizione di possibilità della moralità. C’è salvezza anche fuori dalla Chiesa, o meglio: extra Ecclesiam tota salus ‒ c’è salvezza ovunque dacché condizione necessaria e sufficiente per essa è l’obbedienza alla coscienza, dunque alla forma trascendentale dell’umano (mentre la Chiesa era la forma teologico-politica determinata del legame, specificamente cristiano, tra storia e trascendenza).
Sono questi i termini in cui il Cristianesimo come antropologia ha posto fine all’egemonia dell’impostazione teologico-politica. Ciò detto, la fine della teologia politica decreta altresì la fine della Chiesa come necessità giuridico-formale garante del rapporto tra la civitas humana e il corpo di Cristo. Si sta cioè sostenendo che il rifiuto di Ratzinger prima ‒ e le affermazioni di Bergoglio poi ‒ costituiscono un passo essenziale per il superamento della Chiesa come forma storica. Volendo essere ancora più espliciti, arriverei a dire che i due pontefici hanno posto le basi per il definitivo tramonto della Chiesa come istituzione secolare.
4. Ma torniamo finalmente a Scalfari, “un non credente che è da molti anni interessato e affascinato dalla predicazione di Gesù di Nazareth” ‒ stando a come il giornalista presenta se stesso. Dopodiché aggiunge: “Ho una cultura illuminista e non cerco Dio”. Ma non è questo il punto della questione. Da un punto di vista metafisico, infatti, non sono affatto la fede o la ‘ricerca’ di Dio a connotare il cristiano. La presunta ‘cultura illuminista’ di cui parla Scalfari è invero molto più cristiana di quanto apparentemente voglia sembrare. Se il Cristianesimo è quello di Bergoglio, fondato sull’obbedienza alla propria coscienza, dunque su di una prassi che ha come principio l’autocoscienza del soggetto rappresentante, bisogna anzi ammettere che, in quanto entrambe filosofie della soggettività, Cristianesimo e illuminismo coincidono: condividono cioè la stessa posizione metafisica fondamentale.
Con un tono che nelle intenzioni vorrebbe forse apparire paradossale, Scalfari afferma: “ai non credenti come me Francesco piace molto, anzi moltissimo”. La vicinanza a Papa Francesco è data da un’evidenza semplicissima quanto insospettata. Se Francesco “piace molto” al fondatore di Repubblica, infatti, è perché sia il Pontefice cristiano che il giornalista ‘illuminista’, pur senza saperlo, credono invero nella stessa cosa: l’autocoscienza trascendentale del soggetto come fondamento dell’agire e dell’essere. Altresì detto, nello spazio apertosi dopo il tramonto della teologia politica, ‘illuminismo’ e cattolicesimo, pensiero religioso e secolarizzazione, s’incontrano su di uno stesso terreno, quello del soggetto quale fondamento dell’esperienza umana nel suo complesso: un Cristianesimo neutralizzato che si è definitivamente trasformato in antropologia pragmatica.
Non è un caso, peraltro, che Scalfari presenti il seguente ragionamento, la cui cifra è espressamente umanistica: “penso anche che con la scomparsa della nostra specie scomparirà anche il pensiero capace di pensare Dio e che quindi, quando la nostra specie scomparirà, allora scomparirà anche Dio perché nessuno sarà più in grado di pensarlo”. Solo all’interno di un paradigma irrimediabilmente antropologico è possibile identificare il pensiero con l’attività di un soggetto, in questo caso quello umano.
Chi può dimostrare che il pensiero debba necessariamente identificarsi con il pensiero dell’uomo? In Spinoza, ad esempio, il pensiero è un attributo della sostanza, non certo della ‘mente’ o del ‘soggetto’. L’affermazione di Scalfari tradisce pertanto una vera e propria ideologia della coscienza che, del tutto insondata nei suoi presupposti, trasforma quella che vorrebbe essere la posizione di un non credente in un’accanita forma di credenza, la quale concepisce ogni possibile esperienza a partire dall’autocoscienza del soggetto certo di se stesso e dunque ritenuto capace di pensiero. Per concludere, circa la posizione espressa da Scalfari risulta quanto mai appropriata la seguente affermazione heideggeriana: “La cultura dell’età moderna è cristiana anche là dove diviene non credente”, o s’illude di esserlo.
Sulla presunta interdipendenza tra pensiero e soggetto pensante, la risposta di Bergoglio è senz’altro meno ingenua e speculativamente non priva di raffinatezza (era questo, peraltro, il secondo punto cui facevo riferimento nel mio secondo articolo, accennando ai momenti più alti della sua missiva).
Scrive il Pontefice: “Dio [...] non è un’idea, sia pure altissima, frutto del pensiero dell’uomo [...] Dio non dipende, dunque, dal nostro pensiero”. Ora, quest’affermazione può ricevere il suo senso all’interno di due soli paradigmi: quello teologico-politico, di cui però lo stesso Papa ha già implicitamente decretato il superamento, o quello, il cui ambito non viene nemmeno sfiorato ‒ né da Francesco né tantomeno da Scalfari ‒, che potremmo con buona approssimazione raggruppare sotto l’etichetta (forse fuorviante ma sufficientemente icastica) di nichilismo europeo (nella sua versione attiva, per riprendere ancora una volta Nietzsche).
E mi riferisco al pensiero di chi rimane sostanzialmente indifferente innanzi alla figura di Cristo, di chi non crede né in Dio né nell’uomo ‒ non nella ragione cartesiano-illuministica e nemmeno in alcun fondamento trascendente.
Troppo a lungo si è ritenuto legittimo liquidare questo pensiero poiché refrattario alla costruzione di qualsivoglia sistema etico, additandogli l’equivoco di una negatività assoluta il cui esito ultimo finirebbe coll’essere soltanto l’inevitabile soppressione di se stessa. Non è così: esiste una filosofia capace di coniugare vita ed immanenza, capace cioè di pensare l’inesausta proliferazione dei fenomeni alla luce di quella che potrebbe essere definita un’inedita cosmologia irrationalis di matrice essenzialmente trascendentale ‒ dunque senza ricorrere ad alcun dispositivo teologico né far leva sulla moderna metafisica della soggettività.
Gli esempi a riguardo potrebbero essere molteplici. Mi limito a qualche nome: Anassimandro, Eraclito, Aristotele (se opportunamente emendato, e penso soprattutto alla Fisica), Giordano Bruno, Spinoza, Nietzsche, Simondon, Deleuze e ‒ nella mia lettura ‒ il pensiero del secondo Heidegger o di Eugen Fink.
Con riferimento all’affermazione di Bergoglio, direi che la posta in gioco è la seguente: ridefinire il rapporto tra pensiero e cosmo alla luce del fatto che il pensiero non proviene dall’uomo e non è affatto una prerogativa specifica della sua presunta soggettività. Si tratta cioè di concepire un pensiero inassegnabile, impersonale ed al contempo assolutamente concreto poiché immediatamente innervato nelle fibre del mondo ‒ di un cosmo che dev’essere pertanto riconosciuto come insieme materiale e trascendentale. Se davvero intendono interrogare il momento anticristiano che inquieta la tradizione occidentale, i due papi, tralasciando la contrapposizione ‒ del tutto inconsistente ‒ tra illuminismo e Cristianesimo, dovrebbero invece osare un effettivo confronto con il nichilismo attivo dell’alternativa cosmologico-trascendentale. Peccato non essere Scalfari: ci sarebbe altrimenti il rischio che qualcuno risponda.
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