Stefania Craxi, qual è il suo primo ricordo di papà?
«Agosto 1964, vacanze a Venegono, Varese. È nato mio fratello, nella nostra famiglia siciliana c’è molta frenesia per il figlio maschio; e mio nonno materno, che si chiamava Vittorio come l’altro nonno ed era pure lui socialista, capisce e mi porta a fare una passeggiata».
Suo padre non era milanese?
«Era nato a Milano, parlava dialetto milanese, sapeva tutte le canzoni popolari, oltre a tutte le canzoni politiche, da quelle anarchiche a quelle fasciste; ma era un siciliano».
Suo padre cantava le canzoni fasciste?
«Era un uomo di sinistra, a casa di suo papà si riuniva il Cln lombardo. Ma mi insegnava la Sagra di Giarabub, che oggi non sanno neppure questi di Fratelli d’Italia… La domenica andavamo a passeggiare sul lago di Como. Un giorno ci trovammo davanti al cancello contro cui fu fucilato il Duce. Il cartello diceva: fatto storico. Craxi si indignò: “Che ipocrisia, si vergognano di quello che hanno fatto!”. Così mi portò a comprare un mazzo di fiori e a deporli dove era morto Mussolini».
Con Almirante aveva un buon rapporto.
«Sognava che un fascista e un socialista andassero insieme a piazzale Loreto, dove si era consumata quella che riteneva un’infame barbarie, e rendessero omaggio sia alla memoria di Mussolini, sia a quella dei partigiani socialisti che lì erano stati fucilati».
La domenica da ragazza lei non usciva con i suoi amici?
«Solo quando capivo che Craxi non mi avrebbe portata con sé. Lo seguivo anche nelle campagne elettorali, che erano bellissime. La prima fu nel 1968. Avevo otto anni, giravo il quartiere — stavamo in via Foppa — con uno zainetto, a distribuire nelle cassette della posta i volantini con la scritta Craxi-Nenni-Gangi».
Che papà era?
«Molto fisico. Non abbiamo una sola foto insieme in cui non siamo abbracciati o per mano. Ma era un padre impossibile».
Perché?
«Era gelosissimo di me; come io lo ero di lui. Infatti sono uscita di casa a vent’anni e mi sono sposata a 23. Solo dopo la sua morte ho fatto pace con i suoi difetti. Comprese le fidanzate di troppo».
Si favoleggia di un suo scontro fisico con Anja Pieroni.
«Le strappai un orecchino e glielo gettai dalla finestra; l’altro lo conserva ancora».
E suo padre?
«Si arrabbiò moltissimo: “Voi due mi farete finire sui giornali!”. Lui era così: sfuriate terribili; ma non portava mai rancore, a nessuno».
E sua madre?
«Craxi è sempre piaciuto alle donne, sin da quando aveva vent’anni, aveva già perso i capelli e non contava nulla. Mamma è stata l’unica a saperselo tenere».
Non portava rancore neanche ai comunisti?
«Craxi non voleva distruggere i comunisti. Voleva farli evolvere, per costruire l’unità socialista. Si chiedeva: ma perché Berlinguer ce l’ha tanto con me? Perché non viene a fare un giro a Milano, a vedere come cambia il mondo?».
Berlinguer fu fischiato al congresso del Psi, e suo padre disse: «Io non l’ho fatto, ma solo perché non so fischiare».
«Era la lotta politica. E Craxi non era un tenero. Se diceva: in questo collegio va Amato, in questo Martelli, i socialisti di quel collegio non entravano in Parlamento. Ma era un lottatore leale. E la politica non era tv, come oggi; era vita e morte».
Dice a caso i nomi di Amato e Martelli?
«No. Quando esplosero i primi scandali, a Milano e a Torino, Craxi mandò Amato come commissario. Craxi fu condannato perché non poteva non sapere. Amato poteva non sapere? Ad Hammamet non l’abbiamo mai visto».
E Martelli come si è comportato?
«Male. De Michelis era uno che si faceva eleggere da sé. Martelli a Craxi doveva tutto».
Berlusconi?
«Anche lui ad Hammamet non venne mai. Lo vidi al funerale. Piangeva. Gli dissi: arrivi con sei anni di ritardo. Ma da quel giorno nella mia battaglia l’ho sempre avuto al mio fianco. La gente cambiava marciapiede per non salutarmi. Quando scoprivano chi ero non mi affittavano casa».
È sicura che Craxi non volesse distruggere il Pci?
«Occhetto venne alle 8 del mattino al Raphael, senza appuntamento, per scongiurarlo di non andare al voto anticipato, mentre loro stavano cambiando nome; e Craxi lo accontentò. Li fece entrare nell’Internazionale socialista. Lo ricambiarono con l’esilio e la morte».
Suo padre fu condannato.
«Craxi si assunse, lui solo, una responsabilità che avevano tutti, e che tutti gli altri negarono. Furono salvati i comunisti e i democristiani schierati con loro. Gli altri furono sommersi».
Quando siete andati ad Hammamet la prima volta?
«Nel 1966. Aveva tremila abitanti; ora sono 80 mila. Un paradiso per gli adulti; una noia mortale per noi. Non una giostra, non un gelato. Andavamo nei cinque alberghi a leggere i cartellini delle valigie, per vedere se era arrivata qualche famiglia italiana con un bambino con cui giocare. Ma nessuno portava i bambini in Tunisia».
Tranne lui.
«Impietosito, inventò una caccia al tesoro che durò tutto agosto. L’ultimo biglietto, firmato Axi, diceva: “Picchi picchi nicchi nicchi/ siete proprio dei bei micchi/ il tesoro è qui a due passi/ e voi siete a cercar sassi/ il tesor, milioni e rotti/ troverete in via Condotti”. Lo conservo ancora».
Via Condotti?
«Nella conduttura dell’acqua c’era uno scrigno pieno di monetine».
Il tesoro di Craxi esisteva davvero. Nelle banche.
«No. Esisteva il tesoro del Psi. Dopo la morte del tesoriere Balzamo, diedero a Craxi i conti intestati ai prestanome milanesi. Ma erano solo una parte delle riserve del partito. Qualcuno se le è tenute. Altre saranno rimaste alle banche. Lui non mi ha lasciato nulla. A Milano abitava in affitto. A Roma in albergo».
Al Raphael, di cui si diceva fosse suo.
«Era di Spartaco Vannoni, il suo migliore amico. Pansa salì da Craxi a intervistarlo, e scrisse che stava in una stanzetta piena di giornali».
Quando suo padre era presidente del Consiglio c’erano Reagan, Thatcher, Mitterrand, Kohl.
«Al G-5 di Tokyo Craxi vide Reagan che usciva dall’ascensore e lo bloccò per venti minuti, lo ricordo appoggiato al muro. Lo convinse ad ammettere l’Italia tra i Grandi della terra. Gli chiesi: papà tu non sai l’inglese, in quale lingua avete parlato? Avevano parlato in spagnolo».
Si racconta che la rovina di suo padre sia legata anche alla rottura con gli americani su Sigonella.
«Non è così. Craxi fece rispettare la legge italiana e il diritto internazionale, e Reagan lo capì. Tangentopoli fu un capitolo della guerra tra la finanza internazionale e la politica; e ha vinto la finanza. Craxi ne ha ricavato un romanzo, in cui il capo della finanza si chiama Koros. Provi a sostituire la prima consonante con una S…».
I partiti rubavano.
«Il Pci prendeva i soldi da Mosca. Dc e Psi dalle aziende controllate dallo Stato. Era un sistema illegale, certo. Con cui Craxi sosteneva anche le cause della libertà, Solidarnosc e l’opposizione cilena. In casa nostra giravano dissidenti sudamericani e la Vanoni, Cavallo Pazzo e Lucio Dalla. Era uno spettacolo vedere un omone come lui accanto a uno gnomo geniale come Lucio. Il giorno in cui Craxi morì, Dalla disse al concerto: “Oggi ho perso un amico”, e gli dedicò Milano».
Cavallo Pazzo?
«Mario Appignani, quello delle incursioni a Sanremo. Craxi ha sempre avuto una passione per gli irregolari. Stava morendo, e si preoccupava per la salute di Cavallo Pazzo, chiedeva se lo curavano bene».
Lui fu curato bene?
«Sapeva che in Tunisia sarebbe morto. Ma mi disse: in Italia torno da uomo libero, o non torno. Insistetti, e mi fece la peggiore sfuriata della vita: “Come ti permetti di mancare di rispetto ai medici tunisini?”».
Però lo operarono i medici italiani.
«Rigatti del San Raffaele, all’ospedale militare di Tunisi, con un infermiere che gli reggeva la lampada. Al risveglio, ancora scosso dall’anestesia, mi disse: “Il generale Garibaldi non è più qui con me”».
E lei?
«Gli risposi: no, il generale Garibaldi è qui. Craxi aggiunse: ho sognato che ero in piazza del Duomo a Milano. La nostalgia della patria era straziante. Poi mi prese da parte la dottoressa Melogli, la diabetologa, e mi avvisò: il tumore si è esteso, non c’è più nulla da fare. Non lo dissi a nessuno, per proteggere mia madre e mio fratello. Sopravvisse un solo mese».
Era proprio impossibile riportarlo in Italia?
«Tentai fino all’ultimo. Parlai con Giuliano Ferrara che era amico di D’Alema, allora presidente del Consiglio: l’idea era curarlo in Francia. Il giorno dopo uscì il comunicato del premier Jospin: Craxi in Francia non era gradito. Richiamai Ferrara e lo pregai di dire al suo amico che era un cialtrone».
È vero che il giorno della sua morte avete litigato?
«Litigavamo spessissimo, ma non quel giorno. Mia madre era a Parigi per analisi mediche. Eravamo soli lui e io. Pranzammo in cucina, gli dissi: stasera ti porto al ristorante. Lui rispose: va bene, ma ora vado a riposare. Lo trovai riverso nel letto. Urlai. Il medico non poté che constatarne la morte. Mio fratello diede l’annuncio. Fino alle 8 di sera ho risposto al telefono che suonava ininterrottamente. Minniti offrì i funerali di Stato; rifiutai. Alle 8 arrivò mio marito da Milano. Soltanto allora crollai».
Vorrebbe che il suo corpo tornasse in Italia?
«No. Aveva detto: voglio essere operato qui, morire qui, essere sepolto qui. Per fortuna la sua memoria è viva. Ogni tanto mi scrive un ragazzo e mi dice: sono craxiano. E sa qual è la cosa buffa?».
Quale?
«Sono tutti di destra. La sinistra, cui apparteneva, l’ha disconosciuto. Chi votava Psi vota centrodestra».
Perché lo chiama Craxi e non papà?
«Per mantenere un distacco emotivo. E perché non voglio fare l’orfana. Ce ne sono già troppi in Italia, e di solito abbracciano quelli che gli hanno ammazzato il padre».
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