L’appello di Serenella Iovino rivolto alla sinistra a fare “qualcosa di darwiniano” (“la Repubblica”, 31 ottobre, 2022), può valere tanto per l’Italia quanto per il Paese che l’8 novembre s’appresta a delle elezioni di midterm, le quali si preannunciano problematiche per i dem e in generale per la cultura liberal d’oltreoceano.
Iovino, è ovvio, non ha in mente l’immagine di Charles Darwin pressoché caricaturale, che del naturalista britannico è spesso propagandata da chi lo elegge a teorico della brutale legge del più forte. Chi s’assesta su tale posizione, infatti, omette di considerare che il realismo darwiniano è reso umano da un impianto teorico anti-dogmatico e dalla fortuità delle variazioni dei caratteri, da un radicale scetticismo nei confronti dell’assolutismo filosofico e della mitologia dell’origine, e dalla propensione ad accogliere nel metodo dell’indagine scientifica l’imprevedibilità dell’accostamento metaforico e la creatività (anche letteraria) dell’analogia. Si pensi ad esempio, a quel che nel primo decennio del ventesimo secolo scriveva di Darwin un campione della pedagogia democratica americana come John Dewey (The Influence of Darwinism on Philosophy and Other Essays, New York, H. Holt and Co., 1910).
Iovino, d’altra parte, non cessa di ricordare che per l’autore de On the Origin of Species (1859) l’evoluzione è un problema di competizione e, insieme, di cooperazione (o di “alberi”, per stare sempre a Darwin, ma anche di reti e networks di spessore, per rifarsi invece alle riflessioni di Joseph A. Buttigieg concernenti la scrittura dei Quaderni di Antonio Gramsci; si veda Gramsci’s Method, “boundary”, 17, 2, 1990, 65).
È proprio questa complessa intersezione d’amicizia e di lotta, una complessità confermata tra le altre cose dalle ricerche neuroscientifiche sulla base naturale – di certo però non esclusiva – dell’empatia – la quale dà a suo modo un fondamento scientifico a un’altra idea gramsciana, quella di “con-passionalità” – a far sì che Darwin possa essere per la sinistra un autore che la aiuti a trovare “l’aggancio con il mondo in cui è”, e a superare quel doloroso, imbarazzante e irragionevole “iato tra parole e mondo” che caratterizza, tristemente, l’impegno leftist da entrambi i lati dell’oceano.
Parlare dell’elitismo della sinistra è un po’ come dire che il re è nudo, solo che ormai questo non è più un tabù, se anche l’afroamericana Margot Jefferson, premio Pulitzer nel 1995 per i suoi lavori di critica culturale, ha identificato con rammarico nei liberal una élite tanto separata dal mondo, da finire per fare il gioco di Donald Trump. Questo almeno è quanto emerge da un’intervista del 2 novembre 2022, ancora su “la Repubblica”, un quotidiano che da qualche tempo pare in cerca di nuove coordinate entro cui orientarsi, proprio come fanno i democrat americani più consapevoli, che tra le altre cose riprendono a concentrarsi sulla working class nel contesto multietnico e multiculturale del loro Paese (a cui anche noi ci avviciniamo), ponendo forse le basi d’una riforma – sul piano dei contenuti – che riguardi l’istruzione accademica.
Nelle Humanities di più d’una università d’oltreoceano, ad esempio, s’è creata un’aristocrazia umanistica che, complice un quadro teorico di riferimento ancora indebitato in modo peculiare con il pensiero di Jacques Derrida e Michel Foucault – si ritrova ora a fare i conti con una realtà di difficile contenimento sotto diversi profili (ci si è resi conto ad esempio che frasi come “the meaning is fascist”, pronunciate dagli epigoni di Derrida, non pagano più, anzi, è il caso di dire, non hanno alcun significato). La sproporzionata enfasi posta sul controllo poliziesco del linguaggio – di per sé una perversione feticistica del linguistic turn, che ha pur dato tanto al pensiero del ‘900 – è emblematica proprio dello iato tra parole e mondo in cui è precipitata molta cultura umanistica e progressista. In questo iato, sono venuti a mancare gli appigli vitali che angustiano gli intellettuali liberal, e sui quali la propaganda trumpiana s’appresta invece a marciare con concrete speranze di successo, se non altro al di fuori del New England e della California, in quel Midwest che sta diventando un incubo anche nell’immaginario degli europei democratici e liberali.
Quali sono gli appigli alla realtà che sono venuti a mancare, mandando in crisi negli Usa le Humanities, anche in termini di finanziamenti e iscrizioni nelle università e, guarda caso, di competizione con le STEM? È difficile stilare un elenco completo dei problemi degni d’attenzione, i quali sono probabilmente affrontabili nell’immediato purché vi sia un rinnovato impegno nei confronti dell’education, di sicuro su basi teoriche meno esposte a quelle che potrebbero essere definite le debolezze epistemologiche dei Cultural Studies. Queste ultime, d’altra parte, si sono accompagnate negli Usa a una marcata avversione nei confronti delle scienze e a quella misura d’oggettività che esse possono fornire, il che di certo non ha facilitato il dialogo tra i diversi ambiti del sapere e della ricerca negli ultimi decenni.
Il primo ordine di problemi, 1) il primo appiglio alla realtà, utile a comprenderla e forse a orientare più efficacemente la prassi educativa e politica, riguarda il modo in cui ci si rapporta al conflitto sociale. Tale modo, anziché fare esplodere la conflittualità come sta accadendo oggi, dovrebbe contribuire a civilizzarla, a renderla gestibile e produttiva di miglioramento. In tal senso, proprio gli Italian Studies potrebbero avere qualcosa da dire. È infatti dai tempi di Ordine e conflitto. Machiavelli e la letteratura politica del Rinascimento (Liguori, Napoli, 1984), che Roberto Esposito cerca di pensare in termini non oppositivi e non dualistici il rapporto tra l’ordinamento politico e i conflitti a esso inerenti (un tema che si poteva applicare alle rivendicazioni sindacali di allora ma anche, potremmo aggiungere, alle battaglie per i diritti civili degli afroamericani e delle minoranze di genere, dagli anni dei Kennedy a oggi). Lungo questa linea argomentativa, si comprende pure un certo interesse d’oltreoceano per Mario Tronti, motivabile al fondo dalla sua idea che se l’Italia dagli anni ’60 non è precipitata in un’aperta guerra civile, al netto della tragedia del terrorismo, questo è accaduto anche grazie al fatto che l’allora lotta di classe nelle fabbriche ha da un lato conquistato dei diritti, dall’alto ha limitato i danni della violenza (Mario Tronti, Our Operaism, “New Left Review”, 73, 2012, 119-139). A questo proposito, si pensi che negli Usa è proprio una situazione esplosiva sul piano sociale a fare oggi giustamente più paura, e a richiedere un rio-orientamento economico, politico e culturale per scongiurarla. 2) La seconda questione, invece, a cui prestare attenzione, concerne il vivere in una sfera pubblica digitale che insieme isola e connette, esacerbando la violenza del conflitto a cui s’è accennato sopra. Perché mai, visti i danni cognitivi – quindi non solo l’occasionale disinformazione – che le fake news e l’indistinzione di reale e virtuale stanno arrecando, le Digital Humanities non riscoprono il legame sempre più necessario della teoria con la critica, lavorando ad esempio a una teoria critica dei social media? 3) Il terzo ambito su cui concentrare un decisivo ripensamento delle scienze umane, almeno nell’accademia americana, è poi quello del loro rapporto con la scienza, in particolare con la biologia, poiché negli ultimi quarant’anni tra la biologia da un lato, e l’antropologia culturale, la storia sociale, i Gender Studies, e le lingue moderne dall’altro lato, s’è sviluppata una lotta feroce di reciproca – e irragionevole – demonizzazione, che ha le sue colpe nella diffusione del preconcetto secondo cui sulle Humanities non conviene investire più di tanto risorse economiche.
In modi tra loro diversi, tutte e tre le aree di studio sin qui evocate sono state coinvolte in processi di polarizzazione delle opinioni e delle prospettive teoriche, tanto da limitare in modo molto netto, laddove l’agenda liberal è più rigida, che cosa sia accettabile dire e che cosa no, con chi sia dignitoso interloquire e con chi no. Come se non bastassero, andrebbe aggiunto, dall’altro lato dello schieramento politico, i gag orders (ad esempio i divieti d’adottare libri di testo che parlino di Critical Race Theory) nelle scuole e nelle università sotto il controllo delle amministrazioni repubblicane.
Per quanto riguarda la dimensione del conflitto, la feticizzazione del linguaggio in una political correctness da utilizzare come arma di condanna morale che lasci intatte le ineguaglianze socio-economiche strutturali, abolisce la possibilità di confliggere argomentativamente su questioni che non siano riconducibili alla sfera delle differenze identitarie. Non è un caso che due anni fa (7 luglio 2020), Harper, un magazine moderatamente (o meglio: criticamente) liberal, abbia pubblicato una lettera sottoscritta da accademici americani di differenti background etnici e identità di genere, nella quale si sostiene che “non bisogna permettere che la resistenza si irrigidisca intorno a un suo tipo di dogmatismo e coercizione, che i populisti di destra stanno già sfruttando. L’inclusione democratica che vogliamo si può raggiungere solo denunciando il clima intollerante che si è creato da entrambe le parti […]. Noi sosteniamo l’importanza di una dialettica e di un contraddittorio espressi con forza e anche taglienti, per tutti”. L’espulsione di presunte hothead da dibattiti e luoghi di lavoro altrettanto presuntivamente inclusivi, perlopiù a opera d’influenti anime belle, esponenti di quello che Anne Applebaum ha definito un puritanesimo di ritorno memore dei processi alle streghe dei tempi di Nathaniel Hawthorne (The New Puritans, “The Atlantic”, 31 agosto 2021), ha invece finito per proiettare il dissenso argomentato al di fuori del confronto democratico, esacerbandolo fino all’inverosimile e generando il mostro che tra le altre cose ha condotto all’assalto di Capitolo Hill il 6 gennaio 2021.
Cynthia Cruz, in un saggio dolente, arrabbiato e lucido che sta ispirando anche un certo giornalismo italiano democratico, seriamente riformista e di sinistra (Melanconia di classe. Manifesto per la working class, Atlantide, Roma, 2021), dice che negli Usa, ormai, “la crescente maggioranza dei soggetti appartenenti alla working class è composta da donne e non bianchi” (10). Questo, ovviamente, non significa che non vi siano uomini o bianchi nella working class, le stessa Cruz, con la precarietà della propria professione di donna bianca, vi si include. La sua osservazione significa invece che il modo in cui i liberal intendono la working class non è più attuale. Sostenere infatti, dalla posizione del privilegio liberal, che non vi sono più operai bianchi e maschi che lavorano in fabbrica, finisce per costruire “una falsa opposizione tra operai bianchi e non bianchi” (11), quando, in realtà, “tutti gli appartenenti alla working class condividono la medesima lotta contro l’oppressione della classe dominante” (ibidem). Pensando con Cruz, varrebbe quindi la pena di mettere a fuoco una sfera d’appartenenza – una “classe” più inclusiva e ampia di quella che alcuni decenni fa coincideva con il perimetro della fabbrica – che renda conto della sofferenza malinconica d’una middle class declassata. Quest’ultima è tipicamente quella del Midwest disgustato dai liberal, una classe rimasta imprigionata – per certi versi al pari d’una vittima consenziente – nei meccanismi depressivi e pericolosamente dissociativi della più cieca ideologia neoliberista, del più crudo darwinismo sociale, al punto da votare per il proprio carnefice (Trump), attendendo da lui la salvezza.
Tutto il ragionamento di Cruz è sostenuto da una impalcatura teorica e argomentativa di tipo dialettico, a monte del quale v’è il modo in cui Georg W. F. Hegel, sin dai primi anni dell’800, intendeva l’articolazione per unità e differenze della ragione, e di quel che di buono l’illuminismo aveva generato, compresa la capacità di criticare riflessivamente se stesso, ovvero di rettificare le proprie istanze dialetticamente, alla luce delle contraddizioni derivanti da se medesimo (si ricordi la Letter on Justice and Open Debate di “Harper Magazine”, 2020). Si tratta d’un atteggiamento che le odierne Humanities in distress, (auto)sfiduciatesi del loro decostruzionismo a oltranza, potrebbero iniziare a prendere in considerazione, riallacciando così il dialogo costruttivo con le sorgenti della cultura europea alla luce però, questa volta, dei mutamenti sviluppatesi successivamente con la de-colonizzazione (e il suo portato, anche legittimo, di rivolta anti-illuministica), e quindi con i flussi globali dell’emigrazione di massa.
Massimo Cacciari, che di orizzonte della crisi quale ‘ambiente’ ormai costituivo del pensiero e della società se ne intende (Krisis: saggio sulla crisi del pensiero negativo da Nietzsche a Wittgenstein, Feltrinelli, Milano, 1976), ha giustamente invocato la necessità d’un rinnovato pensiero critico (Opposizione divisa e senza radici, “L’Espresso”, 30 ottobre 2022). Il fatto più preoccupante, già accaduto negli Usa, chissà in Italia ed Europa, è però che certe aree dell’opinione pubblica digitale tendono a vedere negli alternative facts, nelle fake news, e in generale nelle manipolazione mediatiche sottese all’ideologia trumpiana del movimento MAGA (Make America Great Again), la vera espressione del critical thinking. Ovvero: come farsi scippare dall’oppositore politico non dei voti (che pure sono importanti), ma il pensiero (d’altra parte se non sei capace di pensare, e allarghi lo iato tra le parole e le cose, non ti votano).
La posta in gioco, come si può notare, è piuttosto alta. L’area delle Humanities che si occupano delle lingue moderne, e in cui sino ad ora sono rientrati anche gli Italian Studies, sembra però incline a sostenere che quanto è stato fatto negli ultimi decenni per smascherare l’oppressione nascosta nel linguaggio, va ora traslato sul piano d’una rinnovata attenzione al tema del lavoro (Working Conditions è il tema della prossima conferenza della Modern Languages Association – MLA – che si terrà a San Francisco nel gennaio 2023). È però sufficiente pensare il linguaggio e il lavoro come ambiti tra loro semplicemente omologhi, così che gli strumenti d’analisi dell’uno transitino nell’altro? O non occorre forse un ripensamento del nesso tra linguaggio, lavoro e società, inquadrando il primo, se non entro una vera e propria totalità sociale, almeno entro un’articolata nozione di complessità sociale, come quella che ad esempio Jürgen Habermas ricavava proprio dal giovane Hegel, quando il pensiero di questi non s’era ancora irrigidito nella chiusura d’un sistema filosofico paradossalmente impermeabile alla storia? Di Habermas, si veda a tale proposito Lavoro e interazione (Feltrinelli, Milano, 1975), un testo che, riletto oggi, ci può aiutare a far fronte ai danni dell’assolutizzazione epistemologica del ruolo del linguaggio nella società, danni ingigantitesi al pari d’una snowball, allorché abbiamo iniziato a credere di vivere in un testo e non in un mondo umano costruito sulla Terra.
Insomma, è vero che “la crisi delle Humanities è una crisi dei finanziamenti” (Christopher John Newfield, President’s Column, “MLA Newsletter”, 54, 2, 2022, 2-3), ma vale anche la pena chiedersi se i finanziamenti non arrivino perché i contenuti di queste Humanities in fondo, e al momento attuale, non compongono del tutto lo iato tra le parole e le cose, tra il linguaggio e il mondo, ovvero non soddisfano completamente i criteri di scelta sottesi alle decisioni d’investire o di donare pro bono (nel mondo reale, ovvero su questa Terra così difficile da abitare, tra le epidemie, la guerra e la crisi ecologica).
In relazione invece alla sfera pubblica digitale, e al modo in cui essa fomenta il caos d’una incontrollata e deleteria cultura della percezione sganciata dal realtà, dal pensare ragionevole e perfino dalla possibilità di provare emozioni, sentimenti e passioni dotati di senso, autentici – nostri – Habermas può avere ancora qualcosa da dire (ma si pensi anche, per rimanere agli Italian Studies, a quello che un critico dell’inautenticità borghese come Luigi Pirandello, scriveva della degenerazione della capacità senziente e affettiva degli individui, negli anni turbolenti e creativi che accompagnavano l’Italia e l’Europa verso una crisi modernista tutt’oggi estremamente istruttiva; si veda di Pirandello La menzogna del sentimento nell’arte, “Vita Nuova”, 29 giugno – 6 luglio, 1890).
Habermas, che ha ormai l’età del nonno o del bisnonno, più che del padre, contro cui ultimamente ci si è esercitati in un tiro al piccione piuttosto folle (fino al momento in cui gli uomini hanno perfino dovuto irragionevolmente dimostrare di non essere come Adam Weinstein, quello di Hollywood), ha messo in luce che la digitalizzazione odierna della sfera pubblica, per come è condotta, mette seriamente in crisi la nostra capacità to make sense, per così dire (Ein neuer Strukturwandel der Öffentlichkeit und die deliberative Politik, Surhkamp Verlag, Berlin, 2022, 9-67). Non è qui il caso di ripercorrere l’ampia gamma di patologie e insicurezze psicologiche che si sono sviluppate negli ultimi anni a seguito della recente svolta social – al cui inquadramento teorico può dare invece un contributo una monografia dedicata alla cultura della percezione. È però opportuno, per quel che riguarda Habermas, riprendere come ha fatto recentemente Leonardo Ceppa il suo monito conclusivo, il quale sembra quasi evocare, a propria volta, il rovello di Ivan Karamazov circa il dolore degli inermi e degli innocenti, offrendo però una soluzione che attende d’essere risvegliata nelle pieghe d’un ratio illuministica consapevole dei suoi stessi errori: “in un mondo inimmaginabile di fake news – che come tale non potrebbe neppure identificare sé stesso, distinguendosi dalle informazioni vere – nessun bambino potrebbe crescere senza sviluppare sintomi clinici. Dunque non ci serve una direttiva politica, bensì un imperativo costituzionale: quello di conservare una struttura mediale che renda possibile il carattere inclusivo della sfera pubblica e il carattere deliberativo della pubblica formazione dell’opinione e della volontà” (67).
Le parole d’ordine sono chiare, e indicano un commitment verso il futuro, che non sarebbe spiaciuto a Gramsci, e al suo bisogno di contrastare l’esacrato “lorianesimo”: inclusività, deliberazione, formazione pubblica, in modo da evitare, con la forza d’un imperativo kantiano che transiti dalla morale alla costituzione, che le prossime generazioni crescano sviluppando sintomi clinici causati dall’irragionevole irrealtà – che è altro dalla forza dell’immaginazione e della creatività – che ci fluttua attorno, aumentando guarda caso i profitti degli happy few, e condannando gli altri alla malinconia della working class.
Entro questa prospettiva, il distress delle Humanities fa tutt’uno con l’ansia della modernizzazione accelerata (e in parte fraudolenta) degli ultimi vent’anni, arrivando a intaccare, non solo o non tanto le discipline umanistiche e la loro capacità di comprensione del presente, ma la nostra stessa humanness, ovvero la possibilità di vedere l’umano nel volto di chi ci sta di fronte (chi nel viso de li omini legge ‘omo’, Purg. XXIII, 32).
Come si è risposto, in passato, alla crisi del senso stesso della realtà? Gli esempi, nella letteratura, nell’arte, nelle fiabe, non mancano, basti pensare, per stare a Pirandello, a quella forma sofisticata di negoziazione dei confini tra realtà e finzione rappresentata – a teatro – dall’abbattimento della cosiddetta quarta parete, e al legame che questo gesto per certi versi rivoluzionario, intrattiene con la tradizione napoletana della sceneggiata.
In maniera in certa misura commovente, il regista Roberto Andò, a proposito del suo recente lavoro La stranezza, ha parlato di Pirandello come di un ‘grande’ padre – ma poi bisogna andare a leggere cosa ne avrebbe pensato più tardi il povero Stefano Jr. – che ha saputo raccontare come sia complesso il rapporto con la realtà, un rapporto da tracciare e aggiustare con più d’un dispositivo, ovvero con l’ausilio di diversi media, i quali però non hanno il diritto di trasformare la negoziazione dei confini tra realtà e finzione nella mera evaporazione degli stessi confini entro la vita reale, se non altro perché poi c’è un sintomo clinico che faticosamente starà lì a ricordarci che la realtà c’è, somewhere.
Ecco dunque che letteratura e teatro possono fruttuosamente intersecarsi per alleviarci il distress da social e aiutarci a costruire – dei social stessi – una comprensione, una teoria, critica.
Il terzo possibile campo d’intervento per alleviare l’ansia troppo umana delle Humanities, riguarda il rapporto tra scienze umane e biologia, ed è qui che il Darwin di Iovino (da lei evocato a partire dal vecchio libro di Peter Singer, A Darwinian Left: Politics, Evolution and Cooperation del 1999), può tornare utile.
Due riduzionismi di segno opposto – uno culturalista, l’altro biologista – hanno infatti per lungo tempo impedito di pensare in termini fruttuosi il rapporto tra un fenomeno culturale come la letteratura e il corpo naturale. Oggi è invece possibile sostenere che, sulla scia delle teorie della embodied mind, ma appoggiandosi anche alle intuizioni fenomenologiche di Maurice Merleau-Ponty (La prose du monde, 1969), la retorica e lo stile delle arti non sono un mero abbellimento estrinseco dell’opera, ma un tratto della nostra cognizione del mondo, un modo di conoscere inscritto, per così dire, nel nostro respiro, nel nostro essere organismi biologici (Alberto Casadei, Biologia della letteratura. Corpo, stile, storia, il Saggiatore, Milano, 2018).
Il 1975 è l’anno a cui va fatta risalire l’origine d’una fenditura epistemologica, nel cui solco si sono sviluppati due versanti di pensiero opposti ma tra loro speculari. Quell’anno, infatti, hanno visto la luce l’influente saggio dell’antropologa culturale Rubin Gayle intitolato The Traffic in Women, e il libro Sociobiology del biologo Edward O. Wilson. Da allora e per decenni – soprattutto in ambito angloamericano e in una temperie culturale in prevalenza post-strutturalista e post-moderna – la fenditura tra le due direzioni di ricerca in merito ai rapporti tra la sfera biologica e la sfera sociale ha creato, da un lato, una profonda inimicizia (se non una reciproca demonizzazione) tra le Humanities e la biologia. Tale fenditura, dall’altro lato, ha dato luogo a tentativi spesso isolati di interpretare i fenomeni letterari in chiave esclusivamente biologica, limitando in senso deterministico la creatività, la libertà e l’imprevedibilità del gesto artistico.
Come sintetizza Paola Di Cori, con The Traffic in Women Gayle ha introdotto l’idea – poi rivelatasi ricca d’effetti, si pensi ad esempio al lavoro della storica sociale Joan Scott e a quello di Judith Butler – “di un vero e proprio sistema psico-socio-economico”, il sex-gender system, composto di “relazioni sociali in grado di trasformare la sessualità biologica in prodotto dell’attività umana” (Genere e/o gender? Controversie storiche e teorie femministe, in A. Bellagamba, P. Di Cori, M. Pustianaz, a cura di, Generi di traverso. Culture, storie e narrazioni attraverso i confini delle discipline, Edizioni Mercurio, Vercelli, 2000, 17). Emancipando il termine gender dal suo uso fino ad allora limitato allo studio del dismorfismo sessuale, e muovendosi tra Karl Marx, Sigmund Freud e soprattutto Claude Lévi-Strauss, Gayle ha posto le basi della convinzione, propria del costruttivismo radicale, che la biologia in quanto tale sia un “prodotto dell’attività umana” e che quindi non abbia senso parlare d’una inscrizione del linguaggio, della letteratura, delle arti e dei loro stili nel bíos. Da tale punto di vista, il bíos non si darebbe in alcun modo come qualcosa di già là, esso sarebbe l’esito e non il presupposto d’una attività, ad esempio d’una strategia governamentale di controllo (come nel caso della scienza demografica, almeno stando alle analisi di Michel Foucault), o d’una performance.
Se questa è l’ampia portata dell’innovazione nell’uso del termine gender da parte di Gayle, Wilson in Sociobiology ha percorso la strada diametralmente opposta. Nel suo libro, il biologo ha offerto un’analisi omnicomprensiva del comportamento sociale dell’uomo e degli animali entro la cornice teorica della selezione naturale e dell’adattamento. Nella prospettiva di Wilson, Darwin era stato, pertanto, il primo sociobiologo e il primo esponente della psicologia evoluzionista. Come sostiene il critico letterario Joseph Carroll quando fa riferimento all’opera di Wilson, Darwin fu in grado “di analizzare la cultura e la psicologia umane risalendo – lungo ininterrotte sequenze causali – agli istinti biologici elementari della sopravvivenza e della riproduzione” (Literary Darwinism: Evolution, Human Nature, and Literature, Routledge, New York and London, 2004, viii). Entro questa prospettiva, la cultura – inclusa, potremmo aggiungere, la produttività di mezzi retorici e stilistici cari alle Humanities – non ha alcuna autonomia rispetto alla sfera biologica, poiché dagli istinti elementari alla cultura ci sarebbero solo “ininterrotte sequenze causali”.
Pertanto, se per Gayle la natura importava solo nella misura in cui era prodotta o almeno trasformata dalla cultura (e in particolare dalle relazioni sociali), per Carroll la cultura (e quindi anche la letteratura) è un prodotto dei processi adattativi e selettivi insiti nell’evoluzione degli organismi naturali: culturalismo e determinismo biologico sono uno lo specchio dell’altro, nel senso che dogmatizzano ciascuno il proprio punto di vista e, anziché cercare un termine medio – ad esempio lo stile incarnato dal modo in cui l’apparato neuronale del nostro cervello fa già da sempre contatto con il mondo, per parafrasare e aggiornare Merleau-Ponty – riducono la comprensione del rapporto tra bíos e Humanities al predominio d’uno dei due termini sull’altro.
Stabilire una l) logica della cooperazione tra Humanities e STEM, aggiornando il lascito darwiniano con i risultati della ricerca neuroscientifica spendibili nei campi più diversi (inclusa la AI), 2) lavorare a una umanizzazione della tecnologia portatile che ci sta appresso ogni giorno (anziché farci esclusivamente tecnologizzare), e 3) reincorporare un sano antagonismo delle opinioni nella società e nell’accademia, sono tre possibili strade che vale la pena esplorare per affrontare alla radice la crisi delle Humanities, motivando così il riaffluire dei finanziamenti.
In sostanza, se per Iovino, che lavora negli Usa, in Italia il disperato bisogno della sinistra di “imparare a vedere il mondo” consiste nel vedere per la prima volta “i nuovi italiani”, “le donne”, “le persone Lgbtq, le differenze”, negli Usa all’indomani delle midterm elections si tratterà molto probabilmente di concentrarsi sull’altro termine della stessa tensione dialettica.
Bisognerà insomma lavorare, da parte democratica e speriamo anche liberal, sull’unità, sulle cornice teoriche comuni, sulla condivisione di quel che tutti siamo – esseri biologici, lavoratori, destinatari d’un assalto sempre più pericoloso di percezioni disorganizzate provenienti da un cielo di cartapesta – in modo che il centro creativo (non necessariamente produttivo, pensiamo alla Cina) di questa precipitosa modernizzazione, non s’accasci per lo sforzo del proprio slancio, non soccomba alla frammentazione caotica innescata dalla sua stessa sregolata propulsione espansiva.
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