L’affaire Pasolinì assomiglia sempre più ad un cold case o meglio, l’oblio, che è l’arma più subdola del Potere, lo ha voluto relegare in questo tipo di classificazione per consegnarlo, nell’arco del tempo, alla dimenticanza. L’oblio, appunto, che arrivi salvifico perché la versione di un banale convegno carnale tra frosci rimanga a galla al di là di ogni immarcescibile evidenza. Ma si rassegnino i più, il sipario è stato strappato.
Che Pelosi non abbia nulla a che vedere, fisicamente intendo, con l’omicidio supera l’ipotesi per diventare tesi. Falso che venga rimorchiato quella notte a piazza Esedra. Sono mesi che i due -la Rana e Pier Paolo- hanno una relazione.
È stato il cugino Nico a presentarglielo dopo un incontro occasionale. Addirittura la madre di Pino svolge alcuni lavoretti di sartoria per lo scrittore e, d’accordo con il marito, vede di buon occhio la frequentazione dei due. Più scaltra del marito, non solo intuisce ma sa il rapporto che unisce quei due e addirittura sprona il figlio ad una frequentazione quale che sia con il regista convinta che Pino potrà solo avvantaggiarsene. Che poi, a misfatto compiuto, il padre si lascerà scappare: «È tutta corpa de quer froscio!» per salvare l’onore del figlio, è un’altra storia.
Pelosi ha un appuntamento preciso con Pier Paolo con il quale dirigersi all’Idroscalo dove, gli è stato detto, avverrà la restituzione delle pizze di Salò. Pino si è dichiarato disponibile a fare da zimbello ai fratelli Borsellino (che arriveranno all’appuntamento in moto) e agli altri che li seguiranno. Quando sfoceranno nella spianata dell’Idroscalo non sappiamo ancora se hanno seguito Pelosi non visti o se è stato proprio il ragazzo a fornire loro le coordinate. O se siano stati i Borsellino, uno dei quali, accordandosi al telefono con Pelosi, gli dice testualmente: «CIò ‘na voja de daje ‘n zacco de botte a quer froscio!». Quale ne sia il motivo lo ignoriamo dal momento che tra i Borsellino e Pasolini non c’era mai stato alcun contatto, non si conoscevano e non è da escludere che i massacratori, o alcuni di essi, fossero presenti alla telefonata del Braciola e si siano invitati alla festa senza manifestare al piccolo malavitoso le loro reali intenzioni.
D’altronde, il parterre all’Idroscalo, quella notte, era particolarmente nutrito. Jacques Berenguer, del Clan dei Marsigliesi, è a capo del drappello punitivo composto, oltre a lui, di cinque picchiatori neofascisti; di due conosciamo i nomi (che non faremo in questa sede ma sono stati consegnati nelle mani di un notaio), degli altri sappiamo con buona approssimazione della realtà che erano nomi di terzo livello, pronti all’obbedienza ma rimasti sempre nell’ombra e mai assurti all’onore della cronaca ma di forza belluina con la quale abbattere il vitello sacrificale. Ci sono poi i ‘pulcini’: Pelosi, che convoglia all’Idroscalo il grosso della truppa, i fratelli Borsellino ai quali è stato promesso che potrannosfogare la propria omofobia sul. malcapitato, Giuseppe Mastini alias Johnny lo Zingaro (la sua presenza è agli atti), Antonio Pinna, Sergio Placidi il prosseneta, un parterre affollato dicevamo ma disomogeneo (non tutti si conoscono fra di loro).
Pelosi ha inanellato una serie infinita di buatte a cominciare dalla lite ingenerata, a suo dire, dal suo rifiuto di essere sodomizzato dallo scrittore dopo che quello aveva consumato col suo giovane amico un rapporto orale. Invece, appena l’Alfa dello scrittore si ferma, questo viene immediatamente estratto dalla vettura. Tutti sanno, alcuni degli adolescenti intuiscono, che non sono lì per una foto ricordo. Ha inizio la mattanza.
Berenguer (paradossalmente Bellicini lo ha definito un pavido e per questo si aiuta con una dose massiva di cocaina) e i cinque gli si fanno intorno e cominciano a colpirlo, con le mani nude, con bastoni, con catene?, alla fine con un calcio ai testicoli così forte da strapparli dall’epididimo lasciandolo in terra ormai inerme. Ma ancora vivo. Nel frattempo il trambusto e le grida disperate dello scrittore hanno attirato la curiosità di un tal Misha Bessendorf, un ebreo russo che ha trovato riparo in una delle baracche. È di passaggio sul litorale in attesa di approdare ad altri lidi e ora, per sopravvivere, vende di giorno in banchetti improvvisati paccottiglia che ha portato con sé dall’Unione Sovietica. Appena affacciatosi sul proscenio viene fermato da un carabiniere in divisa che prima gli chiede i documenti, subito dopo gli intima di rientrare immediatamente in casa. È lecito domandarsi che ci faccia lì, a quell’ora, una pattuglia dei CC che sembra quasi assistere alle ‘operazioni’ e sincerarsi che nessuno interferisca. Misha emigrerà negli Stati Uniti, a New York, dove si stabilirà dando vita a diverse attività ma risultando sempre inavvicinabile e, a distanza di quasi cinquant’anni, ancora terrorizzato che qualcuno lo avvicini per chiedergli lumi su quella maledetta notte. Misha non mente, sarà piuttosto la signora Lollobrigida a mentire allorché dichiarerà di essersi accorta del cadavere solo tra le 6 e le 7, scambiandolo per ‘monnezza’ quando invece anche lei verrà attratta dalle urla disumane dello scrittore e verrà prontamente minacciata dagli assassini di morte e di dare fuoco alla sua baracca. Di fronte alle minacce la donna rientra velocemente anche perché mettersi troppo in luce con le autorità nuocerebbe alla sua permanenza all’Idroscalo: da un po’ di tempo, infatti, giungono voci che il Comune voglia abbattere l’agglomerato di casupole abusive.
Gli assassini ordinano al Pinna di passare con la sua auto sul corpo agonizzante di Pier Paolo. Il Pinna ha un attimo di resipiscenza. Come Sergio Citti, è stato una sorta di guida vernacolare dello scrittore (lo accompagnerà al Pincio durante la festa della FGCI) e poi il poeta, tutto sommato, è stato sempre buono con lui. È a questo punto che Johnny lo Zingaro gli prende dalle mani le chiavi, si mette alla guida e sormonta più volte il corpo di Pasolini, uccidendolo. Ci dirà Antonio Mancini, ex Banda della Magliana, di aver conosciuto Mastini impubere .Che gli chiede di guidare la sua Ferrari e quello rimane allibito dalle capacità del ragazzino.
È il ragazzino poi a lasciare lo spiazzo (è arrivato con Placidi che se ne andrà via prima degli altri) prendendo a bordo Pelosi. E qui sta una delle chiavi di lettura dell’intera vicenda. Dopo pochi metri, Pelosi ha dei conati di vomito e deve scendere. Quello lo scarica e riparte subito. Saranno proprio i carabinieri Guglielmi e Cuzzupé ad arrestare Pelosi vittima sacrificale già designata, ancor prima che si inizi il macello. È un falso infatti che i due fermassero Pelosi sul lungomare. A parte il fatto che Pelosi guidava malissimo, e non avrebbe potuto governare la potenza dell’Alfa in un tratto di strada così importante, Cuzzupé (che vive ad Ostia) e Guglielmi sono distaccati al Ministero degli Interni e vengono distratti dalla loro area di competenza quella notte per un’operazione speciale. Questa. Lo Zingaro guiderà l’auto di Pasolini fin sulla Tiburtina, a pochi metri dalla roulotte dove dorme, lasciando le due portiere aperte perché la si scopra il prima possibile. Non se ne capisce la ragione o, meglio, le ragioni potrebbero essere le più svariate. Infatti Graziella Chiercossi -lo dirà in un’intervista rilasciata l a La Repubblica- ha confermato la visita, alle due di notte, di due carabinieri che le comunicheranno di aver rinvenuto l’auto del cugino (prassi davvero insolita). Le autorità non si degneranno di intervistarla, vista l’enormità della dichiarazione, dichiarazione che cambia l’intero impiantito. All’interno, tra i vari effetti personali, verrà rinvenuto un plantare con le iniziali G.M. che sembra appartenere senza ombra di dubbio al Mastini.
È verosimile che lo Zingaro, prima di mettersi alla guida, si sia tolta una scarpa per liberarla del terriccio e, sudato per la concitazione, si sia tolto pure il maglione verde che troveranno all’interno dell’abitacolo. Lo Zingaro e Pelosi avranno, in futuro, altri rapporti. Per la confidenza di una donna che ha riconosciuto lo Zingaro, è verosimile che Mastini sia evaso dal carcere -dove beneficiava della semilibertà (libero dalle 8 alle 21)- per andare a trovare il Pelosi morente e intimargli di tacere anche in limine mortis pena la vita del figlio. Lo arresteranno, con estrema facilità e dopo una manciata di giorni, in casa di una donna di cui dichiarerà di essere follemente innamorato…
Il Generale Antonio Cornacchia asserisce di essere arrivato all’Idroscalo tra le 4:30 e le 5, avvisato dall’Arma (la genericità del dato è nelle sue parole). Non è difficile ipotizzare che l’allerta gli sia venuta dall’unica pattuglia presente sul posto, a cose fatte, dal radiotelefono presente in ogni ‘gazzella’, quindi da Cuzzupé e Guglielmi. Solo una cosa sfugge alla narrazione: perché Cornacchia -lo stesso che aprì fisicamente la Renault 4 che conteneva il cadavere di Moro, lo stesso comandato a Londra per sopraintendere ai sopralluoghi intorno al cadavere di Calvi trovato impiccato- ‘appalta’ la pratica alla Polizia di Stato? Poiché è la Polizia che compare la mattina seguente sulla spianata, è la Polizia che fa i rilievi. Ci sfugge (ancora) il nesso. Una foto iconica, con in basso il cadavere dello scrittore coperto da un lenzuolo, raffigura accanto al corpo tale Ciancia, poliziotto fellone al servizio di Santovito, di giorno impiegato per operazioni correnti di Polizia, la notte adibito ad operazioni ‘speciali’. Parente alla lontana del gestore della famosa trattoria «Cencio alla Parolaccia»,si fregerà, anche, del soprannome di carogna per via del suo innato doppiogiochismo. La foto ritrae, anche, tre personaggi che assurgeranno anni dopo all’onore della cronaca: Abatino (ma lui smentisce, ovviamente), Barbieri e Selis, tre componenti di quella che nascerà due anni dopo come Banda della Magliana. Che ci fanno là? Vorremmo attagliare alle persone quello che Agata Christie dice degli eventi:un indizio è un indizio, due indizi sono una coincidenza, ma tre indizi fanno una prova.
Dobbiamo dire, per verità di cronaca, che Pelosi non entrò quella notte al «Biondo Tevere» con Pasolini. Fu Stefano Carapelli a farlo, un ragazzo che risponde pienamente alla descrizione che ne fece il proprietario del ristorante, Vincenzo Panzironi, al quale la Polizia ‘ingiunse’ però di riconoscere Pelosi.
Si adeguò per paura che il suo locale, allora in auge, subisse delle ritorsioni. Carapelli non sembra coinvolto nella macchinazione, è probabile che abbia scortato lo scrittore su richiesta dello stesso Pelosi cui aveva dato appuntamento in un altro posto.
Il massacro del poeta è da considerare la risposta de noantri alle stragi di Brescia, e a quella di piazza Fontana. Poteva Roma esimersi dal sabba collettivo? Il delitto fu un rito apotropaico, per allontanare da sé la vergogna del comunismo e dell’omosessualità.
Un sacrificio tribale, consumato da neofascisti comandati dai Servizi, come metalinguaggio nell’eliminazione dell’altro da sé. Con sgomento Carla Benedetti ebbe a dire: «Che uno scrittore venga ucciso nel cuore dell’Occidente democratico in assenza di regimi e di guerre è un fatto inaudito».
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