Il Reddito di cittadinanza si è dimostrato uno strumento fondamentale nel contenere la povertà, ma ha ampi margini di miglioramento. Le modifiche, però, dovrebbero basarsi su dati empirici e non su valutazioni politiche.
Il dibattito sul Reddito di cittadinanza (RdC) è caratterizzato insieme da un alto grado di politicizzazione e da una diffusa mancanza di conoscenza sia di come funziona, sia dei dati empirici. Idee precostituite, generalizzazioni indebite, quando non vere e proprie fake news, sembrano dominare riguardo ad una misura che non solo è analoga ad altre che esistono da tempo in Europa, ma, come ha da ultimo documentato anche Istat, negli anni della pandemia è stata essenziale per evitare la caduta in povertà assoluta di oltre un milione di persone e continuerà ad esserlo nella situazione di grave incertezza sul piano economico creata dalla crisi energetica, dalla rapida crescita dell’inflazione e dal perdurare del conflitto russo-ucraino.
Per poter migliorare questo essenziale strumento di policy, rendendolo insieme più equo ed efficace, è necessario che il dibattito si basi sulla conoscenza dei suoi meccanismi di funzionamento e su dati empirici solidi. A distanza di tre anni dall’avvio del Reddito di Cittadinanza, vi è ormai un una consistente base dati – di fonte Inps, Anpal, Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali – cui ci si può riferire.
Il Comitato scientifico di valutazione RdC ha ritenuto quindi utile, persino doveroso, fornire gli elementi essenziali e rigorosi di una conoscenza basata sui fatti al fine della formazione di un dibattito e di un’opinione pubblica correttamente informata. A tal fine ha redatto alcune schede tematiche nella forma di dieci domande e relative risposte, con lo scopo di approfondire questioni controverse, per permettere di comprenderle a fondo e di discuterle consapevolmente. Esse riguardano i seguenti temi: a) l’equilibrio, e il nesso, tra i due obiettivi assegnati al RdC, ovvero il contrasto alla povertà e l’essere strumento di politica attiva del lavoro; b) i motivi per cui non vi è totale coincidenza tra coloro che l’ISTAT considera poveri assoluti e i beneficiari del RdC; c) se ci sono, e quali sono, soggetti penalizzati dalle regole di accesso; d) gli obblighi di chi riceve il RdC; e) in che cosa consistono rispettivamente il Patto per il lavoro e il Patto per l’inclusione e a chi sono rivolti; f) il rapporto tra percepimento del RdC e l’occupazione, g) il confronto tra il RdC e misure analoghe in altri paesi.
Rimandiamo al documento completo e alla lettura delle domande e delle risposte in cui è articolato, per una più dettagliata analisi di questi temi. Qui ci soffermiamo soltanto sulle questioni più controverse, che sono maggiormente oggetto di fraintendimenti, spesso originati da idee preconcette.
La prima riguarda la questione se il RdC sia innanzitutto una misura di contrasto alla povertà o un politica attiva del lavoro. Entrambi questi obiettivi sono presenti nella norma che istituisce il RdC. Ma, anche a seguito della maggiore sottolineatura iniziale del secondo da parte del M5S che ha fortemente voluto questo strumento, nel dibattito pubblico sembra che il RdC debba essere valutato esclusivamente in questa chiave. A parere del Comitato, tuttavia, stante che, anche come politica attiva del lavoro, il RdC si rivolge esclusivamente a chi si trova in condizione di povertà, è chiaro che il RdC è innanzitutto una misura di contrasto alla povertà, per quanto riguarda sia la parte monetaria sia l’inserimento lavorativo, ove possibile. In altri termini, anche le politiche attive del lavoro rivolte a chi, tra i beneficiari (circa la metà) è considerato teoricamente occupabile ed è tenuto a firmare un patto per il lavoro, sono in funzione di contrasto alla povertà. Ma perché queste siano efficaci, occorre non solo che vi sia domanda di lavoro congruente con le caratteristiche dei beneficiari. Occorre anche che i Centri per l’impiego svolgano un’azione più pro-attiva e meno burocratica, cosa che per lo più fin qui non è avvenuta, anche se la situazione è molto disomogenea. Ci si augura che con il programma Gol (Garanzia di occupabilità dei lavoratori) – che ha i beneficiari del RdC tra i propri target principali – le cose cambino.
Ancora più controversa e oggetto di decine di articoli e talk show diversamente tendenziosi è la questione se il RdC scoraggi dall’accettare un lavoro regolare e/o incentivi il lavoro nero. Innanzitutto va ricordato che secondo gli ultimi dati resi disponibili da Anpal (riferiti al 30 settembre 2021), tra chi era tenuto al patto per il lavoro, circa 878 mila (cioè meno della metà) era definibile come “vicino al mercato del lavoro” e spesso si trattava di persone con qualifiche molto basse. La stragrande maggioranza – 724.494 – aveva avuto una qualche esperienza lavorativa in costanza di recezione del RdC. Di questi, 546.598 avevano trovato lavoro dopo aver ottenuto il RdC, anche se non sempre come esito del patto per il lavoro sottoscritto e della presa in carico da parte di un Centro per l’Impiego. 178.000, invece, avevano già un’occupazione al momento dell’entrata nel beneficio, a testimonianza del fatto che non sempre avere un lavoro è sufficiente a uscire dalla povertà.
Ciò in parte era dovuto alle basse qualifiche, in parte alla grande prevalenza di contratti a termine, spesso brevissimi: quasi il 69% non superava i 3 mesi e più di un terzo durava meno di 1 mese. Questi dati suggeriscono che la fruizione del RdC di per sé non disincentiva dal cercare e accettare una occupazione, anche molto temporanea. Per spiegarlo basta considerare che l’importo medio di cui beneficia una famiglia (non una persona sola) è di 570 euro al mese, sufficientemente basso da rendere attraente un lavoro a tempo pieno remunerato con un salario legale , anche minimo. Piuttosto, risulta confermato che è molto difficile, per la popolazione in condizione di fragilità economica, trovare una occupazione che garantisca un grado di autosufficienza economica accettabile sia sul piano della remunerazione sia su quello dell’orizzonte temporale.
In questo contesto, la norma che prevede che venga detratto dal RdC l’80% del reddito che si ottiene da un’occupazione regolare, e che il 100% venga conteggiato successivamente nel calcolo dell’Isee, costituisce un effettivo scoraggiamento dall’accettare una occupazione regolare che non offra un reddito sufficientemente più elevato del RdC e per un periodo lungo. Trasformare, per chi è occupato o trova una occupazione, il RdC in una forma di integrazione di un reddito da lavoro insufficiente perché a tempo parziale è stata una delle proposte del Comitato scientifico nel suo Rapporto. Dopo averla ignorata, sembra che ora il governo ci stia ripensando, sperabilmente non solo per quanto riguarda i lavori stagionali.
Le domande e risposte affrontano anche una, a parere del Comitato, grave debolezza del disegno del RdC come strumento di contrasto alla povertà sui cui c’è poca attenzione nel dibattito pubblico: la situazione di svantaggio in cui sono collocate, rispetto all’accesso, le famiglie numerose e con figli minorenni, a causa della scala di equivalenza adottata per valutare il reddito e l’esclusione di gran parte degli stranieri a motivo di un requisito di residenza troppo alto, in contrasto con la normativa europea.
La lettura completa del documento permetterà di conoscere anche altre proposte di revisione del RdC formulate dal Comitato, con lo scopo principale, se non esclusivo, di rendere più equa e più efficiente questa misura, che si può considerare indispensabile in un sistema di welfare appropriato a un paese avanzato e civile.
*Questo articolo è apparso in contemporanea sul Menabò di Etica ed Economia.
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