In Italia come in Europa, l'emergere dei localismi sempre più estremi coincide con il declino del sociale
Marco Aime
Si intitola Viaggio in Italia. Alla ricerca dell’identità perduta un libro, curato da Giulia Cogoli e Vittorio Meloni, che raccoglie le riflessioni di sette studiosi con differenti approcci e modalità di analisi, riuniti da IntesaSanpaolo attorno al progetto «perFiducia». Il volume sarà presentato presso la sala convegni di IntesaSanpaolo, in piazza Belgioioso a Milano, lunedì 20 febbraio, e a partire dallo stesso giorno sarà scaricabile gratuitamente in formato ebook dal sito www.perfiducia.com. Anticipiamo in questa pagina un estratto del saggio dell’antropologo Marco Aime sul tema «Il tribalismo e i difficili conti con il passato»
Uno spettro si aggira per l’Europa e soprattutto per l’Italia: quello del tribalismo. Negli ultimi tre decenni si è assistito al progressivo emergere di gruppi e movimenti politici che alle grandi narrazioni dei secoli precedenti, su cui si fondavano le ideologie classiche, tanto liberale quanto socialista, hanno sostituito una nuova proposta: quella etnica. Nuova e in realtà vecchia: ma una proposta politica che si affaccia sul mercato deve presentarsi con una buona dose di consolidamento storico e con un’altrettanto buona dose di potenzialità innovative. Ecco che, se da un lato si strizza l’occhio alla storia, dall’altro si lanciano idee nuove, o in grado di apparire tali.
Puntando su valori come identità, radici, autoctonia e proponendo l’immagine di popoli nuovi, fasulli per la storia ma antichi e reali nelle retoriche adottate, tali movimenti, come la Lega in Italia, hanno arricchito il panorama politico con categorie inedite, che spesso sfuggono all’analisi tradizionale. Per questo può risultare utile impiegare gli strumenti dell’antropologia culturale per tentare di leggere il fenomeno leghista, che evoca, a volte volutamente, inconsciamente in altre occasioni, richiami a forme di fondamentalismo culturale e identitario. Quella che Francesco Remotti ha chiamato «ossessione identitaria» sta alla base delle politiche localistiche che non di rado si traducono in forme di esclusione, di xenofobia, e talvolta sfociano in un vero e proprio razzismo, sfruttando il fertile terreno del debole senso di appartenenza nazionale di gran parte degli italiani e le paure nei confronti degli stranieri, per lo più indotte da campagne mediatiche strumentali.
Se si ripercorre il cammino di costruzione dell’immaginario leghista, delle retoriche che lo accompagnano, ci si trova a fare i conti con un continuo oscillare tra concezioni vecchie presentate come novità e, viceversa, elementi nuovi presentati come tradizionali. L’attacco alla nazione, creatura e vanto dell’Occidente «civilizzato», forse non è un ritorno al passato, ma una cifra della nostra modernità. Una situazione di progressiva etnicizzazione delle società, che per certi versi produce un ritorno a forme di tribalismo.
Nonostante abbia subito alcune critiche, il termine tribalismo si è rivelato adatto anche a definire forme moderne di relazione, in cui vengono privilegiati i parenti o i membri dello stesso gruppo. Tale definizione può essere inoltre impiegata per riferirsi all’idea di forte identità culturale o etnica, e di contrapposizione dei «simili» ai «diversi». Se lo si intende in senso sufficientemente ampio, si può sostenere che forme di tribalismo esistano e stiano emergendo in modo vistoso in tutta l’Europa.
Le vittorie di partiti xenofobi, dal movimento di Geert Wilders in Olanda, al Perussuomolaisset (i «veri finlandesi») in Finlandia, ai gruppi politici affini in Ungheria, Austria, Danimarca o Svizzera, che hanno fatto dell’etnicità la loro chiave retorica principale, dimostrano come il concetto di Stato-nazione democratico e pluralista non sia più la cifra caratteristica dell’Europa contemporanea.
L’emergere di localismi sempre più estremi e di istanze di tipo etnico, che spesso sfociano, come si diceva, nel razzismo, coincide con il declino del sociale. Le aggregazioni orizzontali classiche, su base sociale, ideologica, di classe, vengono sostituite da tagli verticali, che classificano sulla base del legame tra terra e sangue, sul principio dell’autoctonia o della cultura. Il venir meno delle grandi narrazioni e la frammentazione dell’economia hanno reso apparentemente obsolete le rivendicazioni tradizionali.
Le identità frammentarie, liberate dagli ideali universalisti, sono divenute nicchie di difesa. L’identità individuale, icona della nostra postmodernità, necessita a sua volta dell’installazione di un apparato logistico, di una serie di punti di riferimento teorici e pratici, che ne supportino la costruzione e il mantenimento in vita. Nascono così nuovi attori, incaricati di sostenere individui resi fragili dalla scomparsa delle strutture collettive di aggregazione.
Individuo, cultura e ritorno all’origine sono le parole d’ordine nella postmodernità globalizzata. Poiché la sorte degli abitanti del pianeta non può più essere migliorata con la ridistribuzione dei proventi della crescita, occorre trovare nuove ideologie che facciano leva sulle risorse identitarie, culturali, psichiche dell’individuo, il modo di sostituire la defunta narrazione della società dell’abbondanza. Sono queste le caratteristiche della «new age» tribalizzata e primitivizzata che ci viene offerta. Ma le tribù di cui stiamo parlando sono raccolte di individui che hanno ben poco a che vedere con quelle descritte dall’antropologia tradizionale. La cultura di questi gruppi non si fonda, infatti, su una vera tradizione condivisa, ma è il prodotto di scelte individuali di identificazione, radunate in insiemi collettivi temporanei e costruiti allo scopo di soddisfare interessi specifici.
Nelle retoriche politiche dei movimenti, che fanno dell’identità il loro fulcro, possiamo facilmente notare come quell’identità sia spesso contornata di termini tra il romantico e il nostalgico, ad esempio popolo, tradizione, e il possessivo «nostro» la faccia da padrone in ogni frase. Basti pensare a certe richieste della Lega Nord sul diritto ad avere maestri, magistrati, funzionari autoctoni. Queste retoriche sono il segno dell’ostentazione di un diritto di primato, che induce a pensare che le caratteristiche di un presunto popolo derivino dalla sua geografia e non dalla storia. È una tendenza propria dei gruppi ristretti, i quali privilegiano la prossimità simbolica e spaziale piuttosto che la memoria storica. E il legame fra terra e gentes viene sbandierato senza nemmeno il bisogno di una narrazione epica che lo sostenga.
La tendenza a «naturalizzare» è sempre più forte e sempre più spesso si mette in atto quella finzione che trasforma la nascita in nazione o in comunità. Da elemento socialmente e storicamente costruito, la cultura finisce per essere invece concepita come un dato «biologico». Si dice cultura, ma si pensa razza, e una concezione razziale della cultura può portare anche a una sorta di razzismo senza razza.
Il nostro è un paese che ha sempre avuto difficoltà a fare i conti con il proprio passato, con l’esperienza coloniale, con il fascismo e di conseguenza anche con il razzismo. Ci siamo crogiolati per decenni nell’immagine, appunto, della «brava gente», non razzista come lo erano invece inglesi, francesi, tedeschi. Il razzismo sembra non appartenerci, sebbene nel 1938 un italianissimo governo approvasse delle ignobili leggi razziali. Dimenticato. Ha forse ragione Marcel Detienne a dire che: «L’Italia è una comunità nazionale che prova, di fronte al suo recente passato, un sentimento di estraneità».
Uno spettro si aggira per l’Europa e soprattutto per l’Italia: quello del tribalismo. Negli ultimi tre decenni si è assistito al progressivo emergere di gruppi e movimenti politici che alle grandi narrazioni dei secoli precedenti, su cui si fondavano le ideologie classiche, tanto liberale quanto socialista, hanno sostituito una nuova proposta: quella etnica. Nuova e in realtà vecchia: ma una proposta politica che si affaccia sul mercato deve presentarsi con una buona dose di consolidamento storico e con un’altrettanto buona dose di potenzialità innovative. Ecco che, se da un lato si strizza l’occhio alla storia, dall’altro si lanciano idee nuove, o in grado di apparire tali.
Puntando su valori come identità, radici, autoctonia e proponendo l’immagine di popoli nuovi, fasulli per la storia ma antichi e reali nelle retoriche adottate, tali movimenti, come la Lega in Italia, hanno arricchito il panorama politico con categorie inedite, che spesso sfuggono all’analisi tradizionale. Per questo può risultare utile impiegare gli strumenti dell’antropologia culturale per tentare di leggere il fenomeno leghista, che evoca, a volte volutamente, inconsciamente in altre occasioni, richiami a forme di fondamentalismo culturale e identitario. Quella che Francesco Remotti ha chiamato «ossessione identitaria» sta alla base delle politiche localistiche che non di rado si traducono in forme di esclusione, di xenofobia, e talvolta sfociano in un vero e proprio razzismo, sfruttando il fertile terreno del debole senso di appartenenza nazionale di gran parte degli italiani e le paure nei confronti degli stranieri, per lo più indotte da campagne mediatiche strumentali.
Se si ripercorre il cammino di costruzione dell’immaginario leghista, delle retoriche che lo accompagnano, ci si trova a fare i conti con un continuo oscillare tra concezioni vecchie presentate come novità e, viceversa, elementi nuovi presentati come tradizionali. L’attacco alla nazione, creatura e vanto dell’Occidente «civilizzato», forse non è un ritorno al passato, ma una cifra della nostra modernità. Una situazione di progressiva etnicizzazione delle società, che per certi versi produce un ritorno a forme di tribalismo.
Nonostante abbia subito alcune critiche, il termine tribalismo si è rivelato adatto anche a definire forme moderne di relazione, in cui vengono privilegiati i parenti o i membri dello stesso gruppo. Tale definizione può essere inoltre impiegata per riferirsi all’idea di forte identità culturale o etnica, e di contrapposizione dei «simili» ai «diversi». Se lo si intende in senso sufficientemente ampio, si può sostenere che forme di tribalismo esistano e stiano emergendo in modo vistoso in tutta l’Europa.
Le vittorie di partiti xenofobi, dal movimento di Geert Wilders in Olanda, al Perussuomolaisset (i «veri finlandesi») in Finlandia, ai gruppi politici affini in Ungheria, Austria, Danimarca o Svizzera, che hanno fatto dell’etnicità la loro chiave retorica principale, dimostrano come il concetto di Stato-nazione democratico e pluralista non sia più la cifra caratteristica dell’Europa contemporanea.
L’emergere di localismi sempre più estremi e di istanze di tipo etnico, che spesso sfociano, come si diceva, nel razzismo, coincide con il declino del sociale. Le aggregazioni orizzontali classiche, su base sociale, ideologica, di classe, vengono sostituite da tagli verticali, che classificano sulla base del legame tra terra e sangue, sul principio dell’autoctonia o della cultura. Il venir meno delle grandi narrazioni e la frammentazione dell’economia hanno reso apparentemente obsolete le rivendicazioni tradizionali.
Le identità frammentarie, liberate dagli ideali universalisti, sono divenute nicchie di difesa. L’identità individuale, icona della nostra postmodernità, necessita a sua volta dell’installazione di un apparato logistico, di una serie di punti di riferimento teorici e pratici, che ne supportino la costruzione e il mantenimento in vita. Nascono così nuovi attori, incaricati di sostenere individui resi fragili dalla scomparsa delle strutture collettive di aggregazione.
Individuo, cultura e ritorno all’origine sono le parole d’ordine nella postmodernità globalizzata. Poiché la sorte degli abitanti del pianeta non può più essere migliorata con la ridistribuzione dei proventi della crescita, occorre trovare nuove ideologie che facciano leva sulle risorse identitarie, culturali, psichiche dell’individuo, il modo di sostituire la defunta narrazione della società dell’abbondanza. Sono queste le caratteristiche della «new age» tribalizzata e primitivizzata che ci viene offerta. Ma le tribù di cui stiamo parlando sono raccolte di individui che hanno ben poco a che vedere con quelle descritte dall’antropologia tradizionale. La cultura di questi gruppi non si fonda, infatti, su una vera tradizione condivisa, ma è il prodotto di scelte individuali di identificazione, radunate in insiemi collettivi temporanei e costruiti allo scopo di soddisfare interessi specifici.
Nelle retoriche politiche dei movimenti, che fanno dell’identità il loro fulcro, possiamo facilmente notare come quell’identità sia spesso contornata di termini tra il romantico e il nostalgico, ad esempio popolo, tradizione, e il possessivo «nostro» la faccia da padrone in ogni frase. Basti pensare a certe richieste della Lega Nord sul diritto ad avere maestri, magistrati, funzionari autoctoni. Queste retoriche sono il segno dell’ostentazione di un diritto di primato, che induce a pensare che le caratteristiche di un presunto popolo derivino dalla sua geografia e non dalla storia. È una tendenza propria dei gruppi ristretti, i quali privilegiano la prossimità simbolica e spaziale piuttosto che la memoria storica. E il legame fra terra e gentes viene sbandierato senza nemmeno il bisogno di una narrazione epica che lo sostenga.
La tendenza a «naturalizzare» è sempre più forte e sempre più spesso si mette in atto quella finzione che trasforma la nascita in nazione o in comunità. Da elemento socialmente e storicamente costruito, la cultura finisce per essere invece concepita come un dato «biologico». Si dice cultura, ma si pensa razza, e una concezione razziale della cultura può portare anche a una sorta di razzismo senza razza.
Il nostro è un paese che ha sempre avuto difficoltà a fare i conti con il proprio passato, con l’esperienza coloniale, con il fascismo e di conseguenza anche con il razzismo. Ci siamo crogiolati per decenni nell’immagine, appunto, della «brava gente», non razzista come lo erano invece inglesi, francesi, tedeschi. Il razzismo sembra non appartenerci, sebbene nel 1938 un italianissimo governo approvasse delle ignobili leggi razziali. Dimenticato. Ha forse ragione Marcel Detienne a dire che: «L’Italia è una comunità nazionale che prova, di fronte al suo recente passato, un sentimento di estraneità».
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