Dai galileisti del '600 ai giacobini del '700 ai socialisti riformisti
dell'800 alle varie famiglie del liberalismo progressivo del '900: in un libro di Panarari e Motta le occasioni mancate dell'Italia
MASSIMILIANO PANARARI, FRANCO MOTTA
Si intitola Elogio delle minoranze , sottotitolo Le occasioni mancate dell’Italia , il libro di Massimiliano Panarari e Franco Motta in uscita per Marsilio (pp. 221, € 16), di cui anticipiamo qui uno stralcio della postilla conclusiva. Il volume è un viaggio attraverso i secoli, dagli eretici del Cinquecento al liberalismo avanzato del Novecento, alla riscoperta di quelle minoranze che sono state finora sottratte al patrimonio condiviso dell’identità nazionale. Panarari, collaboratore della Stampa , insegna Comunicazione politica all’Università di Modena e Reggio Emilia e Marketing politico alla Luiss di Roma. Motta è ricercatore di Storia moderna all’Università di Torino.
La dinamica di desertificazione e spappolamento dei ceti medi è diventata particolarmente eclatante in Italia, dove le classi medie, nucleo sociale delle minoranze civiche, non hanno (praticamente) mai trovato un terreno di coltura o una sponda istituzionale a loro confacente e favorevole. Ancor più lungo gli scorsi decenni, nei quali, per parafrasare lo storico Tony Judt che constatava come la Gran Bretagna fosse diventata meno elitaria e meno populista, l’Italia si è svegliata, al contempo, maggiormente elitaria e più populista (ma meno elitista, nell’accezione positiva qui descritta), anche sotto il profilo degli stili di vita e dei consumi culturali.
C’è, quindi, bisogno di nuove minoranze e di élites che non siano ciniche, né «indecise», ma capaci di praticare una meritocrazia autentica, che non è (e non deve essere, come paventano alcuni) uno «strumento di classe» e di perpetuazione dello status quo, ma l’interruttore per far ripartire il preziosissimo e irrinunciabile ascensore sociale, senza il quale una nazione muore.
È il tema, ben conosciuto, della circolazione e del ricambio delle élites. Élites democratiche, permeabili e inclusive - e non fondate sull’appartenenza di casta, sulla cristallizzazione dei privilegi o sulla cooptazione al ribasso - realizzano, all’interno di una società aperta, le condizioni dell’uguaglianza.
Al riguardo, il problema di fondo, e in maniera estremamente acuta da noi, rimane sempre sostanzialmente lo stesso. Ovvero la legittimazione (e la rappresentatività) di chi esercita un ruolo di direzione; una questione che si è accentuata nel corso di questi ultimi anni, e che ha visto la classe dirigente della politica trascinata (spesso, e per una parte rilevante di essa, molto a ragion veduta) sul banco degli imputati. Ne deriva l’esigenza - non ulteriormente differibile - di sviluppare processi di autentica selezione dei più meritevoli, che permettano di rilevare e valorizzare le capacità, in primis, dei soggetti esclusi - dai giovani alle donne, ai «nuovi italiani» che possono costituire, da questo punto di vista, una speranza - confinati fuori dai luoghi decisionali da un potere di tipo molto tradizionale e dalle consorterie che troppo spesso gli si stringono a coorte.
Di élites un corpo sociale e una nazione hanno bisogno, e il loro rigetto si tinge, di frequente, di accenti rabbiosi provenienti da settori politico-culturali intessuti di sentimenti e fobie che con la democrazia c’entrano ben poco. Le minoranze civili costituiscono precisamente un argine e un antidoto indispensabile al populismo. Perché, come malauguratamente non è abbastanza chiaro a tutti, la democrazia non coincide con il populismo - e quindi rigettiamo serenamente al mittente le accuse, che pare già di sentire, riguardo l’antidemocraticità di queste tesi. Noi rivendichiamo con forza l’antipopulismo come componente di ogni dottrina e pensiero democratici. Analogamente a quanto facciamo con il «mecenatismo», volto a sostenere la cultura e gli individui capaci, che dovrebbe costituire un imperativo etico per i poteri pubblici e le istituzioni, ma di cui, in momenti di crisi fiscale e di disorientamento valoriale come l’attuale, potrebbero e dovrebbero, giustappunto, farsi carico le élites.
All’interno di una democrazia liberale, riteniamo che il ruolo dirigente delle élites risulti irrinunciabile - e, perciò, rileviamo come un errore la diffidenza e la disattenzione nei riguardi di questa problematica così delicata di larga parte della sinistra e del mondo progressista. Altrimenti, visto che il vuoto in politica e nelle faccende di potere non esiste, si lascia che a colmarlo, come avviene in questa fase, siano certe oligarchie del denaro che avvertono i valori democratici come fardelli o lacciuoli di cui sbarazzarsi. L’unico antidoto efficace, insieme alla mobilitazione democratica degli individui e al loro coinvolgimento nella vita pubblica, coincide precisamente con delle élites testimoniali, oneste e competenti, portatrici di un progetto di pedagogia civile. E dotate di quella credibilità e autorevolezza che, sola, può garantire, in via esclusiva, la piena accettazione della loro condizione speciale da parte della cittadinanza.
Nel passato ne abbiamo avute diverse - e sono quelle che qui vengono raccontate: gli eretici del Cinquecento; i galileisti del Seicento; i giacobini del Settecento; i positivisti, gli igienisti e i socialisti riformisti e cooperativi dell’Ottocento; le varie famiglie del liberalismo progressivo e avanzato del Novecento. Tenere viva la loro memoria è, dunque, un esercizio utile anche per il tempo presente.
La dinamica di desertificazione e spappolamento dei ceti medi è diventata particolarmente eclatante in Italia, dove le classi medie, nucleo sociale delle minoranze civiche, non hanno (praticamente) mai trovato un terreno di coltura o una sponda istituzionale a loro confacente e favorevole. Ancor più lungo gli scorsi decenni, nei quali, per parafrasare lo storico Tony Judt che constatava come la Gran Bretagna fosse diventata meno elitaria e meno populista, l’Italia si è svegliata, al contempo, maggiormente elitaria e più populista (ma meno elitista, nell’accezione positiva qui descritta), anche sotto il profilo degli stili di vita e dei consumi culturali.
C’è, quindi, bisogno di nuove minoranze e di élites che non siano ciniche, né «indecise», ma capaci di praticare una meritocrazia autentica, che non è (e non deve essere, come paventano alcuni) uno «strumento di classe» e di perpetuazione dello status quo, ma l’interruttore per far ripartire il preziosissimo e irrinunciabile ascensore sociale, senza il quale una nazione muore.
È il tema, ben conosciuto, della circolazione e del ricambio delle élites. Élites democratiche, permeabili e inclusive - e non fondate sull’appartenenza di casta, sulla cristallizzazione dei privilegi o sulla cooptazione al ribasso - realizzano, all’interno di una società aperta, le condizioni dell’uguaglianza.
Al riguardo, il problema di fondo, e in maniera estremamente acuta da noi, rimane sempre sostanzialmente lo stesso. Ovvero la legittimazione (e la rappresentatività) di chi esercita un ruolo di direzione; una questione che si è accentuata nel corso di questi ultimi anni, e che ha visto la classe dirigente della politica trascinata (spesso, e per una parte rilevante di essa, molto a ragion veduta) sul banco degli imputati. Ne deriva l’esigenza - non ulteriormente differibile - di sviluppare processi di autentica selezione dei più meritevoli, che permettano di rilevare e valorizzare le capacità, in primis, dei soggetti esclusi - dai giovani alle donne, ai «nuovi italiani» che possono costituire, da questo punto di vista, una speranza - confinati fuori dai luoghi decisionali da un potere di tipo molto tradizionale e dalle consorterie che troppo spesso gli si stringono a coorte.
Di élites un corpo sociale e una nazione hanno bisogno, e il loro rigetto si tinge, di frequente, di accenti rabbiosi provenienti da settori politico-culturali intessuti di sentimenti e fobie che con la democrazia c’entrano ben poco. Le minoranze civili costituiscono precisamente un argine e un antidoto indispensabile al populismo. Perché, come malauguratamente non è abbastanza chiaro a tutti, la democrazia non coincide con il populismo - e quindi rigettiamo serenamente al mittente le accuse, che pare già di sentire, riguardo l’antidemocraticità di queste tesi. Noi rivendichiamo con forza l’antipopulismo come componente di ogni dottrina e pensiero democratici. Analogamente a quanto facciamo con il «mecenatismo», volto a sostenere la cultura e gli individui capaci, che dovrebbe costituire un imperativo etico per i poteri pubblici e le istituzioni, ma di cui, in momenti di crisi fiscale e di disorientamento valoriale come l’attuale, potrebbero e dovrebbero, giustappunto, farsi carico le élites.
All’interno di una democrazia liberale, riteniamo che il ruolo dirigente delle élites risulti irrinunciabile - e, perciò, rileviamo come un errore la diffidenza e la disattenzione nei riguardi di questa problematica così delicata di larga parte della sinistra e del mondo progressista. Altrimenti, visto che il vuoto in politica e nelle faccende di potere non esiste, si lascia che a colmarlo, come avviene in questa fase, siano certe oligarchie del denaro che avvertono i valori democratici come fardelli o lacciuoli di cui sbarazzarsi. L’unico antidoto efficace, insieme alla mobilitazione democratica degli individui e al loro coinvolgimento nella vita pubblica, coincide precisamente con delle élites testimoniali, oneste e competenti, portatrici di un progetto di pedagogia civile. E dotate di quella credibilità e autorevolezza che, sola, può garantire, in via esclusiva, la piena accettazione della loro condizione speciale da parte della cittadinanza.
Nel passato ne abbiamo avute diverse - e sono quelle che qui vengono raccontate: gli eretici del Cinquecento; i galileisti del Seicento; i giacobini del Settecento; i positivisti, gli igienisti e i socialisti riformisti e cooperativi dell’Ottocento; le varie famiglie del liberalismo progressivo e avanzato del Novecento. Tenere viva la loro memoria è, dunque, un esercizio utile anche per il tempo presente.
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